4 febbraio 2005 |
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«Tu che mi ascolti» |
Una vecchia foto ritrae Giuseppina Cantadori, detta Lisetta, china a servizio sul pavimento di una dimora lussuosa, una mano a stringere lo strofinaccio , l’altra a sostenere il ventre rigonfio di giovane madre in attesa, in una sorta di rude, spontanea teatralità. Un nitido gioco di luci ed ombre, dove sfocata appare solo la bellezza umiliata di una donna che un ricco corteggiatore respinto ha immortalato, tra amore e crudeltà, accompagnando allo scatto l’insistente invito a “buttare a mare” quel figlio. Ma quel bimbo apparteneva piuttosto al cielo: il padre aviatore, avventuriero dal cuore buono, fascista suo malgrado, che sfiorava con l’aereo, in un gioco di incosciente fantasia, i tetti e i monumenti di una città inasprita dai conflitti ideologici e che sposò Lisetta solo quattro anni dopo la nascita del figlio; e azzurri come il cielo gli occhi -per conquistare donne e guardare sempre oltre le nebbie, delle terre padane o dell’ignoranza- costruiti giorno dopo giorno con la forza del pensiero, da una madre dotata di un’intelligenza “profetica”, oltre i confini del senso comune e dei cinque sensi. Quel bimbo era lo scrittore parmigiano Alberto Bevilacqua, che nel suo ultimo romanzo “Tu che mi ascolti”, dedicato alla madre scomparsa circa un anno e mezzo fa, descrive già nelle prime pagine del libro quella fotografia che ritornerà a sorpresa nel finale, quasi ad imporsi come una firma sulla propria esistenza, il sigillo in bianco e nero di un amore accolto, difeso, temuto e, infine, ritrovato. Perché Lisetta, arguta dispensatrice di saggezza e di vaghèzie (una sorta di sinonimo dialettale e popolare del pettegolezzo, storielle che rubano “alla realtà quel tanto di inverosimile che sempre contiene”), di sensualità e ilarità quasi infantile, innamorata del tango o di quel piccolo regno dell’illusione che è Sabbioneta, si ammalò gravemente di depressione. Fughe da casa, lungo argini, tra presenze invisibili, sempre inseguita dal figlio, così fedele a quella malattia e alla propositiva speranza di una guarigione, da sacrificare la legittimità dei propri tormenti di adolescente e di uomo maturo. E poi il silenzio, ostinato contro emozioni ingestibili, rotto soltanto dalla propria voce, affidata a una collezione di registratori di varie fogge sparsi per le stanze della casa. L’incapacità di baciare, di toccare, quasi un contrappasso per quell’agile ballerina di tango che correva in bicicletta sollevando la gonna e suscitando consapevolmente nel figlio i primi turbamenti dei sensi. L’imperscrutabile paura, infine, di uccidere i due amati figli.
La guarigione giungerà, in età ormai avanzata. Quel “dio che si annida nel cervello”, i cui comandamenti si smentiscono di continuo, rubando a Dio ciò che di più divino è stato donato all’uomo, il libero arbitrio e la conseguente libertà di amare, giocherà il suo colpo di teatro negli ultimi anni di vita di Lisa. Un’occasione breve ma di commovente intensità per riandare ai ricordi , alle parole mai pronunciate ma sempre presenti in un reciproco “sentirsi”; per visitare insieme la sognata Parigi; per concedere alla sensualità troppo a lungo sopita una sottile ma pur scabrosa espressione con un figlio–fidanzato, che tutto accoglie come ricompensa di emozioni negate.
Bevilacqua racconta senza falsi pudori. Una sincerità, nostalgica o arrabbiata, che è affermazione di sé e omaggio a una madre che vive ora in lui in una dimensione quasi soprannaturale, ricordandogli attraverso segni o coincidenze che “la speranza è un rischio da correre”.
Dopo il volume del 1995 “Lettere alla madre sulla felicità”, una raccolta di lettere mai spedite ma di forte sostegno psicologico nel periodo dell’assurda persecuzione seguita alla intuizione dell’autore secondo la quale dietro ai crimini del mostro di Firenze si nascondeva in realtà una banda, Bevilacqua presenta un romanzo non del tutto convincente sul piano strettamente narrativo, ma intensamente evocativo. Non un elogio tout court sulla follia, di cui lo scrittore non elude la drammaticità, pur dichiarando che essa è “prova che si possiede un’anima, e un’anima grande”. Ma certo una condanna della “follia statica dell’arroganza”. Non a caso un altro personaggio delineato con acuta delicatezza è Simone, giovane compagno di ricoveri di Lisetta nella casa di cura per malati di mente, in quelle terre del Po la cui stravaganza geologica -suggerisce l’autore- pare trovare una corrispondenza nella stravaganza mentale degli antichi abitatori. E non a caso – pur senza nulla togliere allo scrittore- sono proprio i brani tratti dal Diario della madre a stupire in poesia e sapienza: “Vorrei conoscere i tuoi esami di coscienza, mio Dio”.
Alberto Bevilaqua
“Tu che mi ascolti”
Mondadori, pagg.219, euro 16,00
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