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|  | Riccardo Sorrentino, 43 anni, lavora al Sole 24 Ore dal '92. Dopo un'esperienza in redazione Finanza, dal '99 è agli Esteri dove si occupa di temi di economia internazionale. Ha seguito per il quotidiano numerosi eventi, compreso il G-7 finanziario di Palermo nel 2001, le conferenze ministeriali della Wto a Cancun (2003) e Hong Kong (2005), molti incontri del G-10 a Basilea e diverse riunioni della Bce a Francoforte. È stato inoltre inviato in Olanda, Stati Uniti, Islanda, Ungheria, Singapore, Indonesia, India, Norvegia, Thailandia e Pakistan. Nell'inverno 2003-2004 e nell'estate 2006 ha collaborato dalla redazione di New York. Vive a Milano con Donatella. |
| | riccardo.sorrentino@ilsole24ore.com |
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Il ritorno dello spettro dell'inflazione
08 novembre 2007 |
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Lo spettro è tornato. Spaventoso come sempre. Ovunque l'inflazione sta rialzando la testa, sospinta dai prezzi dell'energia e degli alimentari, i più difficili da contenere, quelli che meno di altri fanno scattare meccanismi di riequilibrio. È un problema che si ripresenta nel momento sbagliato. Petrolio e grano aumentano mentre altrove, nell'economia mondiale, i ritmi di crescita rallentano: la crisi immobiliare degli Stati Uniti, che si è in parte allargata in tutto il mondo attraverso i mercati finanziari, sta lentamente scatenando i suoi effetti.
IL DILEMMA DELLE BANCHE CENTRALI.
La situazione rende più difficile da affrontare l'eterno dilemma delle Banche centrali, strette tra due obiettivi contraddittori e, per giunta, relativi a orizzonti temporali diversi. Stimolare la crescita subito significa rischiare di alterare le aspettative di inflazione e gonfiare i prezzi in futuro, senza contare gli immediati e incontrollabili effetti sui mercati finanziari. Frenare l'inflazione ora - soprattutto quella legata a petrolio e alimentari - potrebbe significare invece far arenare una crescita già in difficoltà.
LA DIFFICILE SCELTA DELLA FED
La Fed, per la quale il compito era il più difficile, ha avuto poche perplessità. Anche se ha dovuto assumersi qualche rischio. Ha abbassato i tassi di cinquanta punti base in estate, poi di altri venticinque - ma con un governatore contrario - il 31 ottobre. Ha quindi lanciato un messaggio abbastanza preciso: ora, a meno che non nascano nuovi allarmi, i tagli sono finiti. «Il Comitato - ha spiegato il comunicato - giudica che, dopo la sua azione (il taglio dei tassi, ndr) i rischi di un rialzo dell'inflazione sono pressappoco bilanciati rispetto a quelli di un ribasso della crescita. Il Comitato continuerà a valutare gli effetti degli sviluppi finanziari e di altro tipo sulle prospettive economiche e agirà quando necessario per rafforzare la stabilità dei prezzi e la crescita economica». Un messaggio chiaro: ora la Fed è pronta anche ad alzare i tassi se l'inflazione diventasse il rischio maggiore.
MISHKIN E I PREZZI
La conferma è venuta qualche giorno dopo da Frederic Mishkin, uno degli alter ego - insieme al vicepresidente Donald Kohn - di Ben Bernanke. In un discorso molto più interessante dell'audizione del presidente al Congresso dell'8 novembre Mishkin ha raccontato le ragioni delle sue scelte: «Votando per una politica più espansiva, ho valutato attentamente gli effetti di questa decisione sull'altro nostro obiettivo, la stabilità dei prezzi. Ho considerato che l'atteso indebolimento della crescita economica e forse l'emergere di qualche debolezza nel mercato del lavoro potrebbero ridurre alcune di queste pressioni e ho giudicato che un taglio di 25 punti base nei tassi ufficiali non avrebbe sostanzialmente alterato questo scenario. Ho però riconosciuto il rischio che, anche se i dati sull'inflazione core (ristretta, senza prezzi di energia e alimentari, ndr) sono moderatamente migliorati quest'anno, i recenti aumenti nei prezzi dell'energia e delle materie prime, insieme ad altri fattori, potrebbero creare rinnovate pressioni al rialzo sull'inflazione. Di conseguenza, nel valutare quali siano gli appropriati futuri aggiustamenti nella politica monetaria, terrò sotto attento controllo gli sviluppi sull'inflazione».
RISK MANAGEMENT
Il taglio dei tassi di ottobre, in sé, non era neanche una necessità. È stata una scelta di prudenza. «Andando alla riunione - ha raccontato Mishkin - ero confortato dalla mancanza di prove dirette, finora, che ci siano serie ricadute sull'economia nel suo complesso della debolezza del settore immobiliare e delle condizioni creditizie più restrittive. Con un tasso di interesse ufficiale invariato, però, ho visto rischi di ribasso nelle prospettive di crescita. Ero consapevole, in particolare, del rischio che un mercato finanziario ancora fragile potrebbe essere particolarmente esposto a potenziali notizie negative sulla situazione immobiliare, o più generalmente sulla macroeconomia, e che rinnovate tensioni sui mercati finanziari potrebbero riversarsi in modo negativo sulle performance economiche. Il mio voto a favore del taglio dei tassi alla riunione era motivata dal mio desiderio di ridurre queste probabilità. Il Fomc avrebbe forse potuto aspettare dati più chiari e lasciare la sua politica invariata, ma credo che i costi potenziali dell'inazione fossero maggiori dei benefici, soprattutto perché, se il taglio dovesse rivelarsi non necessario, potrebbe essere annullato».
IL CODICE BCE
Per la Banca centrale europea, che è stata colta dalla crisi e dal risveglio dell'inflazione quando la sua stretta non era ancora completata, il compito era ancora più arduo. Il suo codice - la sua retorica, nel senso buono del termine - le permette però di tener ben separati funzioni e obiettivi: prima la lotta all'inflazione, poi il sostegno all'economia. Alla conferenza stampa di giovedì 8 novembre, Jean Claude Trichet, il presidente non si è smentito e ha chiaramente espresso il suo pensiero: ha dedicato relativamente poca attenzione ai rischi di crescita, ha precisato che mancano dati per decidere, ma ha ricordato che il rischio - quasi l'unico - è quello di "sganciare" le aspettative di inflazione, che sono anche più pericolose dell'inflazione stessa, e che contro questa eventualità occorre agire in modo tempestivo. «Faremo quello che è necessario - ha detto - per ancorare in modo stabile le aspettative di inflazione. Stiamo osservando con grande cura tutti i sondaggi e tutte le informazioni che possiamo estrarre dai mercati finanziari e vediamo ragioni per riaffermare solennemente che non permetteremo nessun disancoraggio delle aspettative di inflazione. Questo si associa molto da vicino al nostro desiderio che non sia osservato nessun effetto indiretto (del rialzo dei prezzi di energia e alimentari, ndr), perché naturalmente le aspettative di inflazione e il perseguimento della stabilità dei prezzi nel tempo sono totalmente dipendenti dall'assenza di effetti indiretti, in un periodo in cui abbiamo una gobba nell'inflazione complessiva».
IL VECCHIO ORCO DEI PAESI EMERGENTI
Il punto debole sono però i Paesi emergenti. Gli stessi che, finora, hanno esportato pressioni disinflazionistiche. Molti economisti discutono, giustamente, dei rischi di frenata generati dal rallentamento degli Stati Uniti; nel frattempo sta sorgendo un altro pericolo, per quelle economie e per il mondo che importa i loro prodotti: «C'è un'altra paura da affrontare - spiega Philip Poole di Hsbc - che è in casa dei Paesi emergenti, o almeno in alcune delle sue stanze. L'inflazione, il vecchio orco, è riemersa dalla tomba per spaventare i responsabili della politica economica. Le prove sono dappertutto: i Paesi del Bric (Brasile, Russia, India, Cina, ndr), l'Argentina, il Messico, il Sud Africa, il Vietnam, gran parte dell'Europa Centrale, gli Stati del Golfo, e altri ne stanno sentendo l'impatto. Questa situazione è il risultato di una combinazione di mali: l'aumento dell'inflazione degli alimentari, l'incompleta sterilizzazione della liquidità interna immessa con gli interventi sui cambi e l'incremento dei limiti alla capacità produttiva».
IL MOSTRO DELLA DEFLAZIONE
La domanda chiave ora è un'altra. Se le economie sviluppate - gli Stati Uniti innanzitutto - rallentano e i Paesi emergenti, per ragioni interne, iniziano a esportare inflazione, c'è il rischio di una stagflazione? È un fantasma anche più spaventoso, questo, anche se non è la prima volta, negli ultimi anni, che questo timore si manifesta invano. «Alcuni investitori - hanno spiegato Stephen Jen e Luca Bindelli di Morgan Stanley - hanno l'idea che gli Stati Uniti potrebbero sperimentare sia recessione che inflazione. Si dice innanzitutto che lo sganciamento economico mondiale potrebbe produrre forti pressioni sui prezzi, fuori degli Stati Uniti, al punto da impedire all'inflazione Usa di raffreddarsi insieme alla crescita. Alcuni investitori credono poi che i prezzi mondiali delle materie prime continueranno a sperimentare un rialzo strutturale, quasi incurante dello stato dell'economia globale. Quest'inflazione dei prezzi delle materie prime, continuano, manterrà alta l'inflazione complessiva americana malgrado la flessione dell'inflazione ristretta ». Stephen e Bindelli, però, non condividono questa idea: materie prime e dollaro basso, spiegano, difficilmente spingeranno molto in alto l'indice dei prezzi, mentre il costo della vita cambia oggi poco - e non è un fenomeno solo americano - al variare dell'occupazione. |
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