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Messaggi contagiosi
di Luca Tremolada
Lui si chiama Roberto Marchionni, ha 47 anni e da 20 veleggia tra le acque agitate da pubblicitari, creativi e account. Dal suo ufficio di direttore generale della Saatchi&Saatchi Italia ha visto gli spot cambiare forma e contenuto, passando dal Carosello al telefonino. L'altro, Mario Garofano, è uno della nuova generazione, 27 anni, una laurea un psicologia, orgoglioso di essere un "freelance" e in un certo modo di essere lontano dai "circoletti" dei pubblicitari ufficiali. Fra loro ci sono 20 anni di differenza, un abisso per gli addetti ai lavori. Eppure entrambi sono d'accordo su un solo punto: nulla sarà come prima.
«Siamo di fronte a uno tsunami inarrestabile – ammette Marchionni –. Sia in Italia che all'estero la comunicazione pubblicitaria è cambiata. E il bello è che nessuno ci sta capendo molto». Complice internet, o meglio una generazione crossmediale che parla una lingua diversa dal passato. «Il 60% dei contenuti sul web è creato dagli utenti – spiega Marchionni –. Prima era semplice: la televisione dominava. Uno spot poteva piacere o non piacere e tutto finiva lì. Adesso il consumatore diventa veicolo, canale distributivo della pubblicità. È questa la rivoluzione, la vera rivoluzione del web 2.0».

Per meglio dire è il meccanismo della viralità quello che ha sparigliato le carte. Come i video su You Tube. Se il filmato diverte e "aggancia" lo si invia a un amico innescando così con una sorta di passaparola, un meccanismo di comunicazione straordinario che spiazza le agenzie pubblicitarie. «Per funzionare – spiega Mario Garofano – il video pubbliciario deve essere irriverente, ironico, deve far divertire, sapersi prendere in giro, rompere il tabù della sacralità della marca. Insomma uno spot che va in televisione, su internet non se lo filerebbe nessuno ». In altre parole, lo spot per essere virale deve in un certo senso trasgredire. Garofano parla a raffica, descrivendo operazioni di guerrilla marketing, ninja marketing, user experience, ambient advertising. Racconta di gruppi di artisti-pubblicitari vestiti da preservativi girare per le strade. Di negozi di cartone nati dal nulla, tombini vestiti da caffettiera e poi scomparsi per dare una esperienza tattile al consumatore. Vere e proprie azioni pianificate, studiate per stupire, riprese da telecamere amatoriali e lanciate su internet. La spinta l'hanno data movimenti di artisti digitali. Poi anche le aziende si sono accorte che la viralità era a basso costo e alta resa. E così hanno accettato di lasciarsi un po' prendere in giro. «La chiave è l'interfusione – osserva il giovane creativo-militante –. Io marca, io comunicatore sono dove tu sei. Il consumatore non si fida più, non gli basta che l'abbia "detto la televisione". Ha voglia toccare con mano. Non è vero che aspira, per dirla alla Andy Warhol, ai cinque minuti di celebrità. Le persone vivono di riscontri si definiscono attraverso il consumo e oggi vogliono definirsi anche e sopratutto attraverso le comunicazione ». E in Italia? «Qui da noi - ruggisce Garofano – il creativo è rimasto uno pseudointel-lettuale, schiavo del suo rapporto con l'account e abituato a pensare in piccolo. Non a caso – afferma sicuro – oggi le sedi della creatività sono altrove, a New Delhi, Miami, San Paolo ma anche in Olanda, in Nuova Zelanda, in Sud Africa».

Non sembra però solo una questione geografica. Il nodo è culturale. Federico Rampolla oggi è director di GroupM Interaction ma è stato presidente dello Iab Italia (Internet Advertising Bureau). «Occhio alle mode – sottolinea –. Di parole d'ordine quando ero presidente Iab ne ho sentite molte. Occorre stare attenti: i clienti attratti dagli slogan chiedono viral marketing, si aspettano che milioni di utenti si mobilitino solo schioccando le dita. Invece stiamo parlando di una delle discipline più complesse. È vero che ci sono soggetti come Skype che sono nate in una logica di passaparola. Ma una azienda che si affida a questo tipo di campagne deve essere "consistente". Accettare di farsi prendere in giro ma sopratutto sapere aprire un dialogo con gli utenti con tutto quello che questo comporta».
Quelli del Web 2.0, su questto tutti concordano, sono pur sempre strumenti da maneggiare con cura che spingono le aziende a cambiare profondamente le proprie logiche comunicative. Detto questo, non tutto è destinato a cambiare. La televisione rappresenta ancora il grosso della raccolta pubblcitaria. Gli investitori continuano a guardare alla carta, alla radio e al piccolo schermo. Internet in termini di numeri rincorre, nonostante i tassi di crescita esponenziali. Tuttavia è proprio il comportamento crossmediale dei consumatori che sta ribaltando le gerarchie. Sempre più spesso, recita una ricerca Sems (Search marketing strategies) realizzata da Nexplora, televisione e carta stampata stimolano le ricerche su internet. Il 65% degli italiani che usano im motori di ricerca ha approfondito su internet un prodotto o un servizio visti in uno spot televisivo o radiofonico oppure in una pubblicità su un quotidiano. Insomma, quello che appare su un media viene ricercato in un'altro. Proprio per questo i progetti di comunicazioni stanno cominciando a essere crosmediali. E questo non riguarda solo un pubblico ultra-giovane. «I miei figli di undici e quindici anni – racconta il direttore di Saatchi & Saatchi – sono quotidianamente bombardati via mail di messaggi virali. Ma oggi anche ottantenni seguono corsi di internet. Pensi che persino la nostra tata peruviana usa messanger per dialogare anche con i miei figli. Quando l'ho scoperto solo allora mi sono convinto che siamo solo all'inizio. O meglio, che nulla nella comunicazione sarà più come prima»

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