| Povera cultura strumentalizzata dalla politica
di Salvatore Carrubba
Alcuni esponenti del centro-destra hanno di nuovo sollevato nei giorni scorsi la questione della lettura "sinistrorsa" che molti libri di testo danno della nostra storia. Si tratta di un classico "tema-Lochness", di quelli che periodicamente riaffiorano per dare vita a una fiammata di dibattito e ripiombare poi nell'oscurità. Anche la soluzione proposta è sempre la stessa: insediare una commissione che dovrebbe asseverare la correttezza storiografica dei testi scolastici.
Studiosi non certo comunisti, come Piero Melograni o Giordano Bruno Guerri, pur senza negare il problema, hanno preso le distanze da questa proposta, osservando giudiziosamente che l'imposizione di una presunta "Verità" ministeriale non sarebbe certo la soluzione più liberale. Si creerebbe anche un precedente dirompente: pensiamo per esempio a che cosa succederebbe, in un sistema che annovera un numero sempre crescente di studenti di origine musulmana, se qualcuno chiedesse (ipotesi tutt'altro che peregrina) una revisione della versione corrente sulle Crociate. Sarebbe certamente un dibattito assai più lacerante di quello attuale sulla Resistenza.
Il problema del centro-destra è un altro: quello di interrogarsi sul perché non emerga una generazione di storici di orientamento democratico-liberale; o, meglio, perché a quelli che ci sono non vengano offerte opportunità di diffondere le proprie idee e, così, di seminare nell'opinione pubblica interpretazioni della storia e visioni del mondo diverse da quelle correnti. La questione, insomma, non riguarda la storia, bensì il difficile rapporto della politica, e della destra in particolare, con gli intellettuali e con la cultura, di cui essa continua a non cogliere l'importanza decisiva nel forgiare l'orientamento complessivo della classe dirigente.
Basti considerare il caso delle tv commerciali, sulle quali qualche influenza il centro-destra, o alcuni suoi leader, potrebbero esercitare: i canali privati si sentono assai disinvolti nel mettere alla berlina l'ignoranza di politici e manager, ma non ammetteranno mai di essere essi stessi, in parte, responsabili di quell'ignoranza. Se gente anche laureata confonde Waterloo con Austerlitz, ciò dipende non solo alla scuola ma anche da un sistema informativo, e televisivo in primo luogo, che non è più capace di trasmettere alcun impulso di natura culturale. Cosa che tanto meno fa la tv pubblica (nella quale, presumibilmente, la presa della cultura di sinistra è più forte), con ciò contraddicendo il proprio ruolo e rendendo ingiustificabile la pretesa di farsi pagare dagli utenti.
Non stupisce allora che, anche nella campagna elettorale che si chiude stasera, il tema della cultura sia rimasto completamente assente. Ancora più curioso il silenzio sull'assetto del sistema televisivo e sulla governance della Rai. Ancora più preoccupante, quello sulla scuola. Si tratta di temi che, probabilmente, appaiono di scarso appeal elettorale: eppure essi fanno presa su una certa fascia di elettori "mediani", quelli che possono fare la differenza, magari in qualche regione per il risultato al Senato.
L'Associazione Mecenate 90 e la Fondazione Rosselli hanno lanciato, per iniziativa di Alain Elkann, un appello per difendere l'«Italia, Paese della cultura e della bellezza» (avverto che l'ho firmato anch'io): ci sono tante proposte, unificate dallo sforzo di considerare la cultura non come successione di eventi effimeri, tanto meno come tentazione di irregimentare, ma come capacità di difendere un patrimonio di arte, storia, bellezza, tradizioni che definiscono un'identità e che possono farsi sviluppo. Speriamo che, dopo, qualcuno lo raccolga.
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