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di Alberto Orioli

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SPECIALE ELEZIONI 2008
Bertinotti: «È tempo di scala mobile. La tecnofinanza ha fallito»
di Alberto Orioli

Fausto Bertinotti (Foto AP)«Tremonti si scaglia contro gli eccessi della "tecnofinanza" derivata dalla globalizzazione? Montezemolo denuncia gli errori della finanziarizzazione dell'industria? È quasi inelegante compiacersi di questi nuovi approdi, ma noi questi rischi li avevamo visti per tempo». Fausto Bertinotti, 68 anni, presidente della Camera e candidato premier per la Sinistra l'Arcobaleno, non nega di assaporare «con una certa soddisfazione che l'establishment economico converga almeno su alcune diagnosi che, proposte 5 anni fa, sembravano una lesione del pensiero unico sulla globalizzazione intesa come processo di mondializzazione dei mercati, di liberalizzazione del lavoro e di finanziarizzazione totale dell'economia».

E ora da dove ripartite?
Da quell'analisi: vale a dire che quel processo di costruzione del mercato era un cancro come peraltro diceva allora Chirac. Ha creato, soprattutto come derivata americana, la figura del consumatore sistematicamente indebitato sul quale ha plasmato un intero modello di crescita economico-finanziaria che è scoppiato. Uno alla volta cadono diversi tabù, compreso quello dell'intervento pubblico in economia se è vero – come è vero – che la Gran Bretagna ha nazionalizzato la Northern Rock in fallimento e la Fed ha consentito il salvataggio della Bear Stearns.

La creazione del consumatore-indebitato è un modo per superare le angustie della povertà.
Proprio da qui si deve cominciare. Dalla povertà che ormai è inglobata anche nel lavoro, fatto inusitato e portatore anche di elementi striscianti di crisi di civiltà. Vorrei che l'azione politica assumesse la povertà come il filo da tirare per ricostruire un'idea di giustizia sociale. Per creare nuove soglie economiche di civiltà del lavoro che consentano di uscire dall'indigenza.

"Soglie" significa livelli di stipendio?
Anche. Significa ad esempio avere come obiettivo una pensione di 800 euro come standard minimo per chi maturi i requisiti per l'assegno di vecchiaia e, soprattutto, sistemi di indicizzazione per salari, stipendi e pensioni legati a panieri più corrispondenti agli stili di vita e ai consumi di queste persone. Il problema del costo del lavoro esiste, ma esiste anche in Germania e lì i salari sono più alti.

Portare a 800 euro una pensione di vecchiaia, magari anche senza versamenti, significa scoraggiare chi oggi deve fare i conti con il sistema contributivo e rischia di ottenere, dopo una vita di lavoro duro, lo stesso assegno...
Obiezione accoglibile. Ma serve solo a confermare l'esistenza del problema povertà anche per alcuni trattamenti derivanti dal sistema contributivo.

Ma Berlusconi prima e Prodi poi hanno già innalzato gli assegni delle pensioni basse.
Sono stati interventi periferici rispetto al vero cuore del problema: il primo ha interessato più di un milione di pensionati ma doveva coinvolgerne almeno 5; il secondo (Prodi) ha messo in campo somme non rilevanti ai fini dei singoli trattamenti.

Quella di nuove indicizzazioni delle pensioni ormai è una terapia proposta anche da Pd e Pdl.
Quand'anche fosse vero, loro si limitano alle pensioni. Noi crediamo che il sistema di aggancio alle dinamiche dell'inflazione vada riportato anche alle buste paga.

Con l'indicizzazione si rischia la spirale salari-prezzi-salari e la creazione di aspettative inflazionistiche. Unico risultato: avere solo incrementi illusori erosi dalla crescita del costo della vita.
A parte che esiste già oggi un'indicizzazione delle pensioni, ma è parziale. Sono state due finora le obiezioni ai vecchi automatismi: l'adeguamento ogni tre mesi induceva a sua volta aspettative inflattive; il recupero fondato sul punto unico di contingenza creava l'appiattimento retributivo e annullava il merito. Sono obiezioni che abbiamo accolto e per questo oggi proponiamo un ritocco annuale sulla base di un indice proporzionale.

Ma questo sistema annulla i risultati della concertazione e toglie margini alla contrattazione nazionale e a quella di secondo livello da agganciare alla produttività.
Si è detto: meglio superare la scala mobile perché si libereranno risorse (anche maggiori) da negoziare nei contratti. La storia degli ultimi 20 anni ha falsificato la tesi: i contratti non tutelano il potere d'acquisto, i prezzi sono saliti alle stelle per motivi interni ed esterni, la rendita si è protetta con l'aumento delle tariffe, con una tassazione più favorevole o con l'evasione fiscale. La contrattazione sulla produttività, poi, è altra cosa.

Terapie ad alto potenziale inflattivo proprio mentre la Bce tiene alti i tassi perché teme fiammate sul costo della vita. Un tremendo corto circuito che potrebbe finire con il penalizzare tutta l'economia.
Giusto, parliamo della Bce. Qual è la scelta giusta? Quella dei nostri tecnocrati di Francoforte che guardano alle paure per l'inflazione e impediscono lo sviluppo dell'economia o quella della Fed che, in questo frangente difficile per l'economia mondiale, dà ossigeno al sistema economico abbassando il costo del denaro? I banchieri centrali dell'Europa sembrano ormai dei pervicaci sacerdoti di una ben strana ortodossia messa in dubbio da personaggi che vanno da Scalfaro a Sarkozy, e non mi sembrano pericolosi eversori. Insomma, finora ha contato la lotta all'inflazione e la ricerca della stabilità; credo si possa cominciare a pensare all'occupazione e alla nuova organizzazione dell'economia come bussole anche della politica monetaria. Per non parlare del fatto che occorrerebbe introdurre nelle regole europee anche la possibilità di sfiduciare i vertici della commissione (che oggi tiene bordone alle scelte della Bce).

Tornano in auge politiche keynesiane. Le invoca un banchiere come Corrado Passera che chiede di porre lo sviluppo come priorità, non l'abbattimento del debito.
Lo dicevamo quando si poteva e doveva contrattare in Europa uno scostamento rispetto al dogmatismo di Maastricht per creare gli spazi delle giuste politiche pubbliche. Ci accusavano di essere fuori dal mondo e fuori dalla contemporaneità. Ma anche rispetto a politiche keynesiane classiche dico che bisogna distinguere e non accettare più l'idea di "fare buche per terra e ricoprirle". Oggi il deficit spending va indirizzato a opere eco-compatibili e di sviluppo ambientale.

Che ne dice degli eurobonds (idea Pdl e Pd) che dovrebbero finanziare reti e grandi opere su scala europea?
Li condivido. Bisogna organizzare politiche di spesa pubblica che considerino la massa critica ottimale che per noi resta l'Europa.

Utilizzerebbe anche le riserve auree?
Perché no. Le quotazioni dell'oro sono schizzate; la discussione è matura, si potrebbero mobilitare risorse importanti.

Per fare cosa?
Finanziare politiche di sviluppo. L'importante è che l'Europa torni ad avere fiducia. Lo sa qual è la differenza con l'America Latina? Che lì si percepisce la voglia di futuro, l'ambizione di crearlo. L'Europa – vista da là – sembra un continente rattrappito, il regno degli impedimenti.

Adesso è lei a usare il bagaglio culturale dei liberali: è una vita che denunciano i lacci e lacciuoli.
Vedono il problema ma sbagliano la risposta. Non è che se ne esce con un sovrappiù di politiche liberiste (le stesse che hanno creato il fenomeno) ma con la scelta strategica di ridurre le diseguaglianze, con la volontà di uscire dalla precarietà. La precarietà – ormai è risaputo – crea un contesto deprimente, uccide le energie vitali.

Perché il mondo operaio dei bassi salari vota a destra?
Detto in estrema sintesi: perché fa breccia il sogno berlusconiano. È l'idea dell'uscita dalla propria condizione come portato di una profonda solitudine. Qualche anno fa è uscita un'importante ricerca sociologica negli Stati Uniti: in una delle interviste una donna, che per 25 anni, tutte le notti, aveva lavato i piatti in un ristorante per pagare gli studi del figlio, risponde che voterà Bush. L'intervistatore ne resta stupito: «Non vorrete mica togliermi la possibilità di sognare?» è la replica della donna. Gli operai che vanno a destra ragionano un po' così. Ma, del resto, l'avevamo già capito quando dalle ricerca della Fiom emergeva che gli operai di Brescia votavano Lega perché l'elemento territoriale creava identità più che non la classe sociale. È un errore pensare che la coscienza operaia sia un dato oggettivo della condizione sociale. È stato il frutto di una precisa stagione politica in cui si proponeva un'analisi critica della condizione lavorativa, la si portava a fattore di lotta attraverso la partecipazione personale e la si traduceva in contenuto prima sindacale poi politico. Quella stagione è stata sconfitta e noi lo sappiamo. Stiamo ricostruendo quella coscienza su basi diverse: ad esempio pensando che un altro mondo sia possibile anche attraverso una diversa globalizzazione.

Che effetto le fa avere a sinistra partiti che considerano le elezioni solo un accidente utile alla propaganda per la rivoluzione?
Non provo fastidio, rancore o volontà di distruzione. Non credo al pas d'ennemis à gauche. Nulla da dire sulla loro legittimità ad esistere; né dirò che, spaccando il fronte, fanno il gioco dell'avversario. Penso solo che sono l'espressione della sconfitta e continuano a vivere di quella sconfitta. Oggi l'idea del potere rivoluzionario non è l'assalto al Palazzo d'inverno ma incidere nel processo di trasformazione della società.




28 marzo 2008

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