Perso ormai il piacevole uso della penna, lo sviluppo di uno scritto, con i ripensamenti, le correzioni, le aggiunte, le espunzioni che s'intrecciavano una volta su un manoscritto, si annienta oggi nel micidiale "taglia e incolla" che schiaccia nel prodotto finale di un documento word ogni possibile stratificazione grafica. Il manoscritto non ha più ragione d'esistere. I bibliotecari del futuro non avranno più la preoccupazione della conservazione del prezioso cimelio ma non avranno più nemmeno la possibilità di scrutare indiscretamente nell'animo di un autore spiandolo attraverso la sua grafia. Il tratto ordinato e nitido di Giambattista Vico, la frenesia confusa delle lettere di Tasso, la sbrigativa e un po' sciatta grafia di Benedetto Croce, la meticolosa eleganza del tratto di Leopardi svelano segreti che gli scrittori contemporanei celeranno per sempre nei programmi di un computer, una volta che avranno accettato di "salvare le modifiche". Benedetto Croce non aveva alcun attaccamento ai propri autografi; una volta stampata un'opera spesso elargiva i manoscritti ad allievi ed amici. Leopardi invece ne era gelosissimo e non se ne staccava mai, trascinandoseli dietro in viaggio, nonostante la consistente mole, un po' per attaccamento morboso a quanto aveva scritto, un po' per tenerli sotto controllo e poterli rivedere, riscrivere, correggere.
Per chi ha amato Leopardi fin dai tempi della scuola, nonostante l'incubo dell'interrogazione, e ancora ne ricorda i versi che più l'hanno emozionato, la poesia degli idilli è diventata suono che gli si riverbera quasi fisicamente dentro, ogni volta che ne ritorna alla mente un'immagine risvegliata dalle più imprevedibili occasioni: una suggestione mnemonica, che ha finito col perdere il contatto con la pagina del libro, che ha offerto la prima lettura. In questo processo mentale si inseriscono spesso, con insospettabile freschezza cromatica, le ingenue illustrazioni del sussidiario delle elementari che agevolarono il primo giovanile approccio con la donzelletta che veniva dalla campagna col fascio d'erba e i fiori, e il paese che riprendeva colore con l'acquietarsi della tempesta, quando la memoria non era, come oggi un piacere da cinquantenne, ma un pesante obbligo da scolaro.
Poi, bighellonando in internet, può succedere quasi per caso, saltando di sito in sito, di entrare in quello della Biblioteca Nazionale di Napoli e di imbattersi nella copia digitale dell'autografo de L'infinito o di A Silvia e di trovare una nuova inattesa emozione: la presa diretta e immediata dell'autografo di Leopardi della poesia che più abbiamo amato. Scopriamo così che quel suono dei versi nasce da una scrittura nitida ed elegante, ordinatamente riportata su piccoli fogli, inquadrata in margini ampi, con tutte le caratteristiche di una "bella copia" tratta probabilmente da minute che il poeta non ha conservato: una scrittura che è affascinante disegno anche per chi non conosce la nostra lingua. Sull'autografo seguiamo anche direttamente, guardando e leggendo queste lettere, il continuo farsi del verso leopardiano, su cui si sono soffermati dettagliatamente saggi critici che non abbiamo avuto mai bisogno o voglia di studiare. Perché anche su quella che ha tutto l'aspetto di una "bella copia" sono riportate a margine del testo o nell'interlinea varianti successive o addirittura annotazioni di precedenti stesure. La prima sorpresa ce la dà proprio A Silvia. Silvia sovvienti ancor: questo l'esordio della nostra poesia, che stride con il suono interiore dell'idillio che è rimembri ancor. E allora può scattare la curiosità che fa scoprire a colpi di mouse che l'edizione napoletana del 1835, quella dello Starita, riporta rammenti ancor, che su un esemplare della Biblioteca Nazionale di Napoli è mutato, di pugno del poeta, finalmente, nel nostro rimembri ancor. Poi leggi, in qualche angolo del commento che accompagna la "controfigura" digitale, che le note autografe a margine del testo riferite a stesure anteriori non sono solo vanità da esibire, ma anche strumento di lavoro, perché Leopardi, come spesso confessa nelle sue lettere, potrebbe in qualunque momento ripensare il suo idillio e riportarlo, come lui stesso dice, all' "antico". Quanto accade A Silvia accade a tutta la lirica leopardiana, dove meno intensamente, come ne Il Sabato del villaggio, dove più marcatamente come nel Canto notturno di un pastore errante nell'Asia.
Non c‘è dunque nella poesia Leopardiana niente di immediato o di estemporaneo, come il nostro empito giovanile può averci fatto credere; ogni verso è frutto di continuo estenuante lavoro di lima, di ripensamento e di perfezionamento stilistico; ognuna delle immagini lunari che c'è più cara è stata a lungo meditata, sperimentata, qualche volta anteriormente sottoposta al giudizio di un suo corrispondente. Ogni componimento poetico è un'opera mobile, sottoposto dall'autore ad un continuo processo di trasformazione che si è fermato solo con la morte nel 1837. Questa natura instabile e mobile appare immediatamente nella grafia dell'autografo che anche attraverso l'uso di diversi inchiostri e diverse penne (il pennino metallico non esiste ancora) confessa la storia perenne di una poesia. Ma il surrogato del virtuale e del digitale non c'è la fa proprio a trasmettere l'intensità di un'emozione come l'originale. Un'emozione che il computer ha cancellato dal futuro.
* direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli
Alla morte di Giacomo Leopardi nel 1837 i suoi autografi rimasero in possesso di Antonio Ranieri, amico napoletano del poeta, che le custodì e ne preservò l'integrità per oltre cinquanta anni. Fu Ranieri che ne dispose il passaggio per lascito testamentario alla Biblioteca Nazionale di Napoli, alla quale le carte sarebbero pervenute al termine di una controversa giudiziaria. Espropriato dallo Stato nel 1897 e affidato dapprima all'esame di una commissione ministeriale insediata nella Biblioteca Casanatense di Roma presieduta dal Carducci, il prezioso archivio leopardiano fu consegnato alla biblioteca napoletana il 19 maggio del 1907. Oltre alla documentazione autografa della quasi totalità dei Canti e delle Operette Morali, il fondo conserva le 4526 pagine dello Zibaldone, raccolte in sei volumi, i Pensieri, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, appunti giovanili e la quasi totalità delle corrispondenze.