Dopo un primo momento di entusiasmo, Leopardi inizia a guardare con sospetto la città e i suoi abitanti, verso i quali prova sempre più avversione e ostilità, nonostante nel suo Zibaldone, in più di una meditazione esprima giudizi lusinghieri sulla complessa natura dei "popoli meridionali", disposti "all'attività e al riposo", i quali "tante risorse trovano nella loro immaginazione, nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita occupa internamente, e nulla all'esterno". Il poeta indica tra i popoli meridionali e quelli settentrionali la stessa differenza che vi è tra gli antichi, possessori del bello e dell'immaginazione, e i moderni inclini al vero e alla ragione; nota "la vera eminenza della natura meridionale sopra la settentrionale" e ribadisce che "gli antichi si rassomigliano al carattere meridionale e i moderni al settentrionale".
Giacomo, comunque, guarda ai napoletani con sospetto, pur non mancandogli, sin dai primi giorni del suo arrivo a Napoli, manifestazioni di stima da parte di uomini sicuramente qualificati, quali il professor Margaris, il dottor Mannella, Raffaele Conforti. Non si può escludere che a convincere Leopardi dell'utilità del trasferimento a Napoli abbia contribuito, oltre alla possibilità che il clima e l'aria salubre potessero giovare alla sua salute, anche l'aver appreso che in quella città Giuseppe Ricciardi insieme al Ferrigni ha fondato nel 1832, il "Progresso delle scienze, delle lettere, e delle arti", periodico attraversato da spirito innovativo, che riesce anche a parlare, tra le righe, di politica nuova e che sembra rispondere all'appello di Niccolò Tommaseo perché i letterati possano essere "cooperatori ai progressi sociali".
Leopardi, però, non può concordare con queste speranze. Le posizioni dell'ormai filosofo materialista e meccanicista Leopardi non possono certo dare credito allo spiritualismo di marca romantica degli intellettuali napoletani. Come verso la Firenze della "Antologia" di Viesseux, anche verso la Napoli del "Progresso" il poeta esprime il suo ‘nobile' e sdegnoso rifiuto.
La cultura napoletana era intrisa delle voghe puriste, cattoliche e liberali, amalgamate da un acceso nazionalismo letterario. In mezzo ai fervori di questo "spiritualismo strapaesano" Leopardi si sente estraneo, e allo stesso Ricciardi, il poeta appare "pressoché inaccessibile" a causa del suo "umor misantropico".
Eppure, il 2 gennaio del 1829, in una pagina dello Zibaldone, Leopardi scrive: "La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia. […] La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera dei mali dei viventi". Il suo dunque non è semplice misantropismo, piuttosto uno sdegnoso rifiuto, unito ad un ironico sorriso, da stendere nei confronti degli spiritualisti romantici che anche a Napoli avevano una capitale culturale.
Quella napoletana gli sembra espressione altissima di quel "secol superbo e sciocco" cui Leopardi dedica la Ginestra o fiore del deserto e le altre notissime opere ‘napoletane': I nuovi credenti, la Palinodia al Marchese Gino Capponi, i Paralipomeni alla Batracomiomachia, e soprattutto la citata Ginestra e l'ultima lirica, Il tramonto della luna.
Dato il clima di ottimismo e di rinascita che si respira a Napoli e in quasi tutta Europa, Leopardi deve apparire, dunque, un fuori tempo: "nuovi credenti" sono da lui chiamati gli intellettuali napoletani in un'amara satira in terza rima, che sarà pubblicata solo dopo la sua morte, nella quale li definisce apostoli troppo sciocchi per essere infelici. Croce nel 1930, a proposito de I nuovi credenti, osserva che ciò che in questa satira interessa non è "la bellezza poetica", perché trattasi di "un acre sfogo del Leopardi …né la vigoria filosofica…nemmeno la verità del giudizio morale e politico, perché i pensieri e i sistemi che il Leopardi irride sono pur quelli coi quali inizia ricomincerà alacre e fecondo in Napoli il moto del Risorgimento nazionale e gli uomini che egli svillaneggia…quegli uomini col lavorare ad opere degne, concorrono al risveglio degli studi e delle zelo civile, propugnando o preparando le ideologie del cattolicesimo liberale o neoguelfismo". Croce, invece, dai versi ricava l'immagine della vita serena di Napoli nei primi anni trenta dell'800. Rileggendo i versi de I nuovi credenti, pare, infatti, di vedere Giacomo in giro per le strade di Napoli, da quelle popolari del "Lavinaro" a quelle eleganti del Chiatamone e della Riviera di Chiaia. Sembra di osservarlo mentre fa scampagnate verso Portici per raggiungere Villa Ferrigni, a Torre del Greco; quando si dirige verso il Vomero sul dorso di un mulo caracollante; quando, al Teatro San Carlino di Largo del Castello, è tra gli spettatori divertiti che assistono alle recite esilaranti di Antonio Petito, il famoso interprete della maschera napoletana, Pulcinella; quando si confonde tra la folla variopinta di Santa Lucia, che sosta vicino ai banconi degli "ostricari" per assaporare i frutti di mare; sembra di vederlo quando, sperimenta con qualche assaggio le virtù miracolose dei maccheroni e dei pomodori, "ristoro e conforto dei viventi".
La cultura di Napoli però, e l'umorismo napoletano, a tratti incline alla scettica indifferenza, non possono non incontrare la ripulsa, amaramente satirica, del Leopardi de I nuovi credenti, opera nella quale è evidente l'estraneità del poeta recanatese alla città, la sua incomprensione per l'antica saggezza e per il non lieve pessimismo che è al fondo del crepitante scoppiettio della humanitas napoletana, perfino della sua gaiezza, pur se talvolta scomposta, fino all'ignavia.
Si può ricomporre la solidarietà tra Napoli e Leopardi solo ripercorrendo i versi dei Paralipomeni o della Ginestra, dove l'incontaminata bellezza della natura di Napoli splende nei passaggi dedicati al golfo in "cui riluce/ di Capri la marina/ e di Napoli il porto e Mergellina", oppure, quasi a contrasto con la luminosa serenità di questo versante, in quelli dedicati all'altro versante, sul quale domina l'infernale "arida schiena / del formidabile monte/ sterminator Vesevo, / la quale null'altro allegra arbor né fiore" se non "l'odorata ginestra".
Anche i Paralipomeni sono versi propriamente ‘napoletani', composti negli ultimi giorni di vita, e perciò non furono inclusi nell'edizione dei Canti, pubblicata dall'editore Starita nel 1835. In questa fantasia zoomorfa, o bestiario antropomorfico in versi, Napoli diventa "Topaia".
Partendo dagli elementi concreti della realtà, Leopardi costruisce una visione appassionata e crudele di Napoli, di cui riconosce (da buon filosofo settecentesco) quasi esclusivamente la nobile antichità, sia pure interpretandola anche come città senza cultura e politicamente decaduta. Tuttavia egli non dimentica che Napoli custodisce la tomba di Virgilio, insieme ad altre vette di civiltà come le rovine di Ercolano. Queste ultime, però, sono circondate da ignobili case. Leopardi loda gli archeologi tedeschi, sostenendo che, se le rovine di Ercolano fossero state in territorio germanico, lo scavo sarebbe stato a cielo aperto e non ci sarebbe stato bisogno di fiaccole per ammirare il teatro che un tempo sorgeva all'aria aperta; ugualmente Pompei, che tanto ha suggestionato la sua fantasia poetica e filosofica.
Leopardi avverte il senso fascinoso delle rovine sulla scia della tradizione settecentesca e condanna ferocemente il buon re Ferdinando II, perché non si impegna a restituire alla luce "l'aurea antichità", né a lasciar ammirare allo straniero la grandezza dell'Italia antica, ma si preoccupa di raccogliere disonestamente gli antichi tesori.
Dalle tante testimonianze come pure dai tanti aneddoti che riguardano l'ultimo periodo della vita del Leopardi, quello trascorso appunto a Napoli, si deduce con agilità che la città partenopea rivelò quasi subito al poeta i suoi aspetti più sgradevoli, e ben presto Giacomo comincia a considerare la sua permanenza una sosta precaria anche se priva "di alcun desiderio positivo di cambiamento", perché i progetti di lavoro o di evasione sono tanto numerosi quanto irrealizzabili, soprattutto per mancanza di denaro. In una lettera del 20 Marzo 1834, indirizzata al filosofo e letterato De Sinner, Leopardi si dichiara disposto a terminare i suoi giorni a Parigi, perché a Napoli si era convinto "che il nord ed il mezzogiorno sono perlomeno indifferenti ai miei mali". Gli mancano, però, i mezzi per partire. Al padre, nelle sue lettere, Leopardi si dice sempre sul punto di andar via; la verità è che nessuno dei due amici ha denaro sufficiente per intraprendere un viaggio. La loro vita a Napoli è di miseria e di angosce.
Dovendo Ranieri partire per Roma nel mese di dicembre, Leopardi vuole accompagnarlo, benché faccia freddo, perché non solo è impaziente di rivedere il padre, ma anche perché vuole allontanarsi al più presto da "questo paese semibarbaro e semiaffricano, nel quale io vivo in un perfettissimo isolamento da tutti. Del rimanente Ella non si deve meravigliare della mia tardanza, perché qui ogni affare di una spilla porta un'eternità di tempo; ed è così difficile il muoversi di qua come il vivere senza crepare di noia".
Scriverà ancora al padre in un'altra lettera, nel marzo 1837, di "essere capitato in un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli, perché veramente barbaro, assai più che non si può mai credere da chi non vi è stato e da chi vi ha passato 15 giorni o un mese vedendo le rarità". Anche volendo considerare la lettera del 1823 al fratello Carlo, nella quale definisce Roma "una città oziosa, dissipata, senza metodo…", sembra proprio che con nessun'altra città se non Napoli Leopardi sia così severo.
*docente di Letteratura Italiana presso all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli