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Leopardi e Napoli

di Paola Villani*

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A dispetto dei suoi quasi 210 anni di età, Giacomo Leopardi continua ad essere uno dei poeti più amati, studiati e letti di tutti i tempi. I suoi versi continuano ad essere attuali, e questo è il segno del suo più alto valore artistico. Un autore universale, dunque, per tutti i popoli e per tutti i tempi, ma anche un autore legato ad una specifica categoria storica e soprattutto ad una precisa geografia di luoghi, tappe di un itinerario che non è solo fisico, ma anche artistico e poetico. Una delle sedi più significative di questo ideale viaggio leopardiano è senza dubbio Napoli. Il capoluogo campano, infatti, svolge un duplice ruolo. Da un lato ha il vanto di raccogliere le spoglie del poeta a Mergellina, e soprattutto un fondo manoscritto unico (che costituisce oltre il 90 % dell'intero corpus di carte leopardiane esistente), insieme a vantare una serie di domicilii storici degli ultimi anni di vita del poeta. D'altro canto, Napoli si offre come ‘cronòtopo', segna cioè una tappa decisiva di quello che parte della critica ha indicato come "l'ultimo Leopardi" o "nuova poetica leopardiana". È il Leopardi filosofo, profeta dell'arido vero, distante dalla precedente immagine idillica del cantore della "donzelletta" del "sabato del villaggio" o dell'infinito immaginare, lontano e forse più ostico del cantore universale dell'amore per Silvia. Quel Leopardi romantico che aveva affascinato la critica e il grande pubblico per anni, ottenendo la patente di grande poeta di tutti i luoghi e di tutti i tempi, ma che forse ha offuscato l'immagine successiva del poeta filosofo, non meno attuale e universale come cantore del male dell'essere e del male di vivere. Se di quel Leopardi romantico e idillico i manoscritti sono custoditi proprio a Napoli, questa stessa città ha conosciuto il secondo poeta, il poeta del crudo e amaro nichilismo, di un materialismo meccanicistico che, già vivo nel periodo fiorentino, proprio nel periodo del soggiorno napoletano sembrava festeggiare i suoi più crudeli trionfi. Era l'ultimo Leopardi, o anche quella che solo a metà Novecento è stata rivalutata come "nuova poetica leopardiana".
Era il 2 ottobre 1833 quando il trentenne poeta recanatese approda nell'allora capitale borbonica, in compagnia del suo amico Antonio Ranieri, dando inizio ad una permanenza che, se si esclude una breve parentesi romana, si prolungherà fino al suo giorno estremo, il 14 giugno 1837. Fecondo fu questo quadriennio, una travolgente esperienza biografica, l'incontro con quel popolo "semibarbaro e semiaffricano", in un rapporto contraddittorio e forse affascinante proprio in virtù di questa complessità. Era la fase di grande rigoglio culturale per la allora capitale, culla di un folto gruppo di intellettuali facenti capo alla rivista "Progresso", nata nel 1832 con Giuseppe Ricciardi, fucina e testimone dei maggiori dibattiti su temi economici, politici e letterari. Nonostante i ripetuti inviti, Leopardi non partecipa a quel gruppo e negli anni napoletani si chiude in un fiero isolamento.
L'astensione dal "Progresso" di Ricciardi si riconnette al nobile sdegnoso riserbo che il poeta aveva già mostrato, nel soggiorno fiorentino, nei confronti del gruppo della "Antologia" di Viesseux. Un isolamento che ha un forte valore ideologico e filosofico, prima ancora che caratteriale. Fu a Napoli, infatti, che Leopardi testimoniò il senso dei suoi approdi filosofici, fu in quell'isolamento che diede prova del suo fiero rifiuto verso quegli ideali spiritualistici di marca romantica, e verso il programma intellettuale di ‘perfettibilità' e ‘incivilimento' che rispondeva all'invito rivolto da Niccolò Tommaseo agli intellettuali, perché fossero "collaboratori ai progressi sociali". Questi temi trovavano forte eco in molti intellettuali napoletani, da Jannelli a Bozzelli e da Fuoco a Cagnazzi, in un dibattito tra diverse discipline che, nonostante la difficoltà di circolazione di idee che gli storici riscontrano, inseriva Napoli all'interno del più ampio panorama culturale europeo, sotto l'egida di un "eclettismo" che amava richiamarsi ai grandi filosofi e storici partenopei: da Vico a Cuoco e a Lomonaco.
Questa accolita di intellettuali si muoveva comunque all'interno di una cultura cattolica, spiritualista, alla quale lo strenuo laico, il filosofo materialista e meccanicista settecentesco, sentiva di non appartenere. Ed è a Napoli che Leopardi idea e compone alcuni dei suoi grandi capolavori nichilisti: è ai napoletani che si ispira quando, nella Ginestra, arringa contro il "secol superbo e sciocco", nei confronti del quale quella ‘protesta' prendeva il colore del riso tragico di Tristano. È proprio il personaggio delle Operette, Tristano appunto, forse il miglior specchio autobiografico del Leopardi napoletano, di quel Leopardi anche filosofo, di quel ‘poeta pensante' o di quel ‘filosofo poetante' riscoperto dalla critica solo dopo un secolo dalla morte. E questa poetica, seppur nata nel soggiorno fiorentino, trova a Napoli, nella Sirena Parthenope, la musa ispiratrice delle sue migliori espressioni artistiche, dal cosiddetto "Ciclo di Aspasia" alla Ginestra e al Tramonto della luna, oltre alla produzione satirica, dalla Palinodia ai Nuovi Credenti, ai Paralipomeni alla Batracomiomachia.
Era questo il segno di quella "protesta leopardiana", di cui parlò già lo Zumbini nel suo noto discorso del 1898: Leopardi a Napoli.
Questa nuova poetica nasce anche in luoghi fisici, ‘scrittoi' del poeta, che sono quell'appartamento di Vico Pero o la villa Ferrigni a Torre del Greco, per citare i più importanti. ‘Scrittoi' la cui eredità è tutta raccolta in quel Fondo Leopardi custodito nella Biblioteca Nazionale di Napoli, dove sono gelosamente conservati manoscritti celebri (A Silvia, L'Infinito…) ma anche carteggi, o lo Zibaldone, insomma il testamento spirituale di maggiore rilevanza.

* docente di Letteratura Italiana presso all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli

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