Daniel Day-Lewis è talmente bravo da avere un enorme difetto. Quasi sempre, nei film che fa, gli altri rimangono schiacciati. Ne "Il petroliere" fa polpette di tutti, tenergli testa è quasi impossibile. Paul Thomas Anderson di lui ha detto "Di solito gli attori modificano i personaggi per avvicinarli a se stessi. Lui fa il contrario, si trasforma quasi completamente. E' impressionante". Rigore e affetto per le storie che interpreta, una passione che non scema neanche a 50 anni passati (e portati benissimo). Papà Cecil scrittore, mamma Jill attrice, a 18 anni sfonda con il bellissimo "Domenica, maledetta domenica" di John Schlesinger. Segue una lunga e proficua parentesi teatrale che si interrompe con parti importanti in "Gandhi", "Il Bounty" e "Another Country" con i giovanissimi Colin Firth e Rupert Everett. Sarà ancora un grandioso punk gay razzista in "My beautiful laundrette" di Stephen Frears e sensuale e carismatico ne L'insostenibile leggerezza dell'essere. Oscar per "Il mio piede sinistro", diventa persino un sex symbol con "L'ultimo dei mohicani". Scorsese lo chiama per "Gangs of New York", in cui è ancora straordinario (schiaccia Di Caprio, che perde con onore il confronto) e poco prima commuove il mondo con "Nel nome del padre". Segue un lungo momento di pausa, "dalla popolarità", e poi arriva l'epica interpretazione de "Il petroliere". Day-Lewis, troppo bravo per essere vero.