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21 NOVEMBRE 2008


Alla Ue manca l'apporto tedesco contro la crisi
di Antonio Pollio Salimbeni (corrispondente da Bruxelles di Radiocor)*
ARCHIVIO

BRUXELLES – Prima l'ostentata sicurezza perché la crisi bancaria veniva considerata essenzialmente un problema americano, poi il no a un intervento europeo per salvare depositi e banche, ancora no a un piano, sempre europeo, per fronteggiare la recessione/stagnazione. Con un no dietro l'altro la Germania non sta dando prova di voler contribuire alla definizione di una politica comune per reagire alla crisi economica. Con un paese dalle finanze pubbliche in condizioni eccellenti grazie a tre anni di ortodossia di bilancio piuttosto dura per molti settori di popolazione (a inizio novembre la Ue ha stimato il pareggio seguito l'anno prossimo da un deficit di -0,2% del pil), il governo ha varato misure di rilancio dell'economia per 12 miliardi in due anni finanziate dal bilancio, nella speranza che generino investimenti quattro volte superiori. E' un pacchetto molto criticato nel paese, per esempio dalla pattuglia dei Cinque Saggi dell'economia e dal mondo imprenditoriale, così come all'estero, per esempio dal governatore della banca centrale austriaca Ewald Nowotny, secondo il quale la Germania ha un grande margine di manovra non utilizzato viste le condizioni di bilancio, in grado di assicurare finanziamenti fino al 2% del prodotto lordo (50 miliardi di euro) senza superare il 3% di deficit/pil.
E' nota la volontà tedesca di non farsi carico di ‘conti' che non vogliono o non possono essere pagati da altri specie quando si tratta di conti pubblici. Così come tutti ammirano (adesso) il modello delle banche spagnole, in tempi di vacche grasse obbligate dalle autorità ad aumentare i coefficienti patrimoniali per fronteggiare eventuali crisi future quando in tutti gli altri paesi o quasi li aggiravano, non si può a maggior ragione non ammirare la politica di bilancio tedesca che negli ultimi anni è stata ostinatamente incollata all'obiettivo di allontanarsi il più possibile dal 3%, verso il pareggio, accumulando risorse per i tempi bui.
E' legittimo che il ‘taxpayer' tedesco non voglia pagare per il suo omologo francese o italiano o per il suo omologo che vive a est. Il problema è che questo atteggiamento funziona se le economie dei paesi vivessero in un ideale ‘decoupling', cioè fossero relativamente staccate da quanto accade altrove, ma così non è. Ora i tempi bui sono arrivati. Lo sanno anche a Berlino, naturalmente, però ci provano. La riluttanza a finanziare uno stimolo fiscale ‘pesante' viene giustificata con vari argomenti. Ogni intervento sui redditi per incrementare i consumi (stimati dalla Ue quest'anno a quota -0,5% e l'anno prossimo a +0,2%) tende a tradursi in risparmio non in maggiori spese. In Germania il tasso di risparmio in rapporto al reddito disponibile è aumentato ininterrottamente dal 200-2001 (contrariamente a quanto è avvenuto in Italia, Francia, Spagna e Olanda) e oggi è arrivato a quota 13%. Fino a un anno e mezzo fa era all'11%.
Inoltre si ritiene che il rilancio dell'economia tedesca non sarebbe sufficiente a rilanciare l'intera Ue. Infine la questione dell'export: nascendo la difficoltà tedesca dal calo delle vendite all'estero è lì che bisogna agire. La prima mossa, dunque, deve essere fatta da chi, appunto, importa merci e servizi tedeschi, cioè i paesi vicini.
É quasi un preoccupante gioco a nascondino, paradossale anche perché i mercati delle esportazioni tedesche si stanno contraendo come gli altri. Se esistesse una Unione europea o almeno un Eurogruppo in grado di esercitare un potere di azione e supervisione sulle politiche economiche le cose andrebbero meglio: esisterebbe la garanzia che sono bandite posizioni da sanguisuga (tutti ad abbeverarsi alla fonte del paese che rilancia più in fretta la propria economia). Ma è un sogno, un'ipotesi lontana.
Così, il ritardo nella ri-partenza dell'economia tedesca avrà un effetto depressivo anche sulle altre economie (trattandosi della quarta economia mondiale con un prodotto lordo pari a oltre un terzo del pil eurozona). Evidentemente non c'è consenso sulla valutazione della congiuntura: mentre Bruxelles si attrezza per un lungo periodo di stagnazione/recessione (almeno un anno) e si inaugura una stagione in cui anche per l'economia reale "bisogna pensare l'impensabile" per evitare una depressione di più lungo periodo e la deflazione (lo ha detto il presidente della Commissione Josè Barroso), in Germania vengono accuratamente evitati toni allarmati. Non ci si rende conto che il fattore tempo è ormai diventato decisivo..

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