Nicolò Carosio: i cento anni della prima voce del pallone

di Dario Ceccarelli

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15 marzo 2007

La telecronaca della partita dell'Italia contro la Corea del Nord ai mondiali inglesi del 1966 (Radio24)
La radiocronaca del gol della vittoria degli azzurri ai mondiali del 1934 (Radio24)

È stato il primo radiocronista sportivo italiano. Aveva un bel cappello alla borsalino, l'impermeabile stropicciato come Marlowe e una voce secca ed elegante che non si alzava neppure quando l'italia faceva goal. Ma la parola goal non si poteva pronunciare. Era il 1933 quando Niccolò Carosio debutta a Bologna per raccontare Italia- Germania. E Benito Mussolini, che in quel periodo comincia la sua campagna contro le plutocrazie occidentali, non ama tutte quelle parole inglesi come goal, cross, corner. Che diamine: siamo italiani o no?, tuona il duce. E Carosio, assunto dopo un provino con l'Ente italiano audizioni radiofoniche, è un ragazzo sveglio e si adegua subito all'autarchia linguistica imposta dal regime.

Goal diventa rete, cross è un traversone, corner calcio d'angolo. Poi ci sono i preziosismi come offside che si trasforma in fuori gioco. Ma questo è un termine tecnico che, all'epoca, diceva poco. Neanche Carosio avrebbe immaginato che questa innocua parolina sarebbe diventata così popolare negli anni a venire, ai tempi per intenderci della Moviola e del Rigore e delle infinite polemiche sugli arbitri.

Ma non andiamo troppo avanti. A quell'epoca, tra le due guerre, l'arbitro è un signore distinto cui bisogna rivolgersi con il massimo rispetto. E Nicolò Carosio è un vero gentleman del microfono: «Amici ascoltatori, è Niccolò Carosiò che vi parla. Il direttore di gara ha concessso un fallo ai cecoslovacchi... Il commissario tecnico Pozzo incita gli azzurri e anche la folla tramsette il suo appassionato calore ai nostri giocatori....».

Che stile, il giovane Carosio. Quando l'Italia segna con Schiavio, regalando la prima coppa Rimet agli azzurri, Carosio dice semplicemente: «Rete». Ma lo dice come se fosse una cosa normale, una delle tante fasi di gioco in una partita.

Carosio porta all'estremo la sua essenzialità inventando il termine quasi-rete per sottolineare un' azione andata vicinissima alla trasformazione. In questo periodo è un mito. La sua voce, distaccata e secca, sembra venire da misteriosi mondi lontani. Magari parla da Torino, ma ai quei tempi la radio fa volare l'imaginazione e battere il cuore.

È dopo la guerra, quando con il boom arriva la televisione, che Carosio diventa anche un volto, un capello e due baffetti da siciliano con la valigia. Lui in effetti è un uomo di mondo ma con sangue palermitano: sua madre è una pianista inglese, il padre ispettore delle dogane siciliano.

Con la televisione però bisogna anche cambiare stile e soprattututto tener conto che il pubblico vede le immagini mentre il telecronista parla. Per Carosio, abituato a ricamare quando non tutto gli sembra chiaro, s'impone un cambio. Così le sue pause aumentano, anche perchè le immagini spesso parlano da sole. Però la sua voce ci conduce sempre per il mondo. Sembra un sacerdote che legge il messale: "Sarti-Burnigh-Facchetti-Bedin- Guarnieri-Picchi" ripete come una magia quando è di turno l'Inter di Helenio Herrera. La finale di Coppa dei Campioni al Prater con il Reald Madrid, quella con il Benfica sotto la pioggia di San Siro. Anche il Milan di Rocco e Rivera è accompagnato dalla benedizione di Carosio. La prima vittoria in Coppa dei Campioni a Wembley con la doppietta di Altafini sul Benfica, e poi le sfide intercontinentali con il Santos e gli Estudiantes. Anche la tragedia del Vajont è scandita dalla sua voce. La gente di Lavarone, infatti, nel momento del disastro, stava nei bar a guardare la tv che trasmetteva una partita del Real Madrid.

Gli anni passano, cambiano le abitudini, i modi di vestire e di parlare. I tifosi sono sempre più esigenti. Carosio cerca di stare al passo ma l'errore è sempre dietro l'angolo. Ci scherza anche sopra e una volta, al giovane allievo Bruno Pizzul, confida un vecchio trucco. «Siccome questa professione si sbaglia spesso, ti conviene farti vedere con un bicchiere di whisky in mano, così almeno hai un alibi».

Questi giovinastri non hanno rispetto, dice agli amici Carosio che mal sopporta le novità. Ma la sua caduta avviene ai mondiali in Mexico nel 1970. Durante la partita Italia-Israele un guardalinee etiope annulla un gol a Gigi Riva. «Ma cosa vuole questo negrone?», borbotta Carosio facendo scoppiare un finimondo.

Per lui, abituato a censurarsi ai tempi del regime ma non in questo mondo che corre più in fretta delle sue parole, è la fine. La Rai lo licenzia e, dopo qualche saltuaria collaborazione, va in pensione lasciando il testimone a Nando Martellini.

Martellini raggiunge l'apice con i mondiali di Spagna nel 1982 quando l'Italia diventa campione del mondo. Conclusa la finale con la Germania, lo grida tre volte come se fosse un tifoso della curva, come lo stesso presidente Pertini che quasi abbraccia il re di Spagna ridendo come un ragazzino. Ormai è un altro mondo. Il telecronista deve colorire, commentare, provocare, stuzzicare. In pochi anni questo mestiere diventa un'altra cosa, forse migliore forse peggiore, di sicuro figlio del suo tempo. Si grida dovunque, figuriamoci in mezzo agli ultrà.

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