di Massimo Donaddio

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26 settembre 2007



La favola del "Vecio": dalla panchina azzurra alla vittoria Mundial 1982


di Massimo Donaddio

Sarà stato per l'aspetto da vegliardo o per quella voce arrochita dalla pipa perennemente accesa, o forse per l'autorevolezza con la quale parlava ai giocatori e ai giornalisti. Lo chiamavano "Vecio" già all'inizio della sua lunga avventura con la Nazionale, Enzo Bearzot, nonostante non avesse ancora compiuto cinquant'anni. Fatto sta che il "Vecio", oggi, lo è un po' di più , visto che compie 80 anni, quasi interamente trascorsi in campo dietro a un pallone, o davanti alla panchina.

Resterà legato per sempre alle immagini di quel Mundial spagnolo 1982, Bearzot: l'onnipresente pipa, appunto, il tressette giocato sull'aereo del ritorno in patria da vincitori con il presidente Pertini, Zoff e Causio, l'abbraccio dei campioni del mondo, la scommessa vinta di Paolo Rossi (e Antonio Cabrini), ma anche il silenzio stampa e le critiche: quelle piovutegli addosso dopo la partenza lenta e un gioco non propriamente dei migliori e il silenzio stampa da lui inaugurato per allentare la pressione nei confronti del gruppo. E poi la gioia del trionfo di una squadra che ha lasciato il segno nella mente di tutti i tifosi italiani, che abbiano più di trent'anni, si capisce.

Nato a Joanni di Ajello del Friuli, Bearzot comincia la sua storia calcistica nel ruolo di difensore-mediano nella squadra del suo paese. Nel 1946 passa alla Pro Gorizia, in serie B, dalla quale spicca il volo per l'Inter (19 presenze in serie A). Torna quindi in serie B, nel Catania, dove disputerà tre campionati prima di accasarsi al Torino dove, nel ruolo di centrocampista arretrato, raccoglierà complessivamente 251 presenze in nove stagioni. Il 27 novembre 1955, all'apice della carriera, scende in campo con la maglia della Nazionale contro l'Ungheria di Puskas, che a Budapest vince per 2 a 0.

Terminata la carriera agonistica nel 1964, prima è preparatore dei portieri, poi assistente di Nereo Rocco e di Mondino Fabbri sulla panchina del Torino, quindi passa al Prato, in serie C. Nel ‘69 entra a far parte degli allenatori delle Nazionali come tecnico dell'under 23; viene poi promosso come vice di Valcareggi prima e di Bernardini poi nella Nazionale maggiore. Nel 1975 è nominato commissario tecnico assieme allo stesso Bernardini, con il quale condivide la panchina fino al 1977, quando diventa ct unico. I primi frutti del suo lavoro si iniziano a cogliere ai mondiali del 1978: gli azzurri si piazzano al quarto posto, così come agli europei del 1980 disputatisi in Italia.

È in Spagna, però, che Bearzot sarà autore di una specie di miracolo: l'avvio è critico, i risultati modesti, la squadra non sembra all'altezza della situazione. Ma Bearzot, oltre alla preparazione tecnica, si dimostra capace di infondere ai suoi ragazzi coraggio, speranza e preparazione morale, basata sulla forza del gruppo. Indimenticabili le partite contro l'Argentina di Maradona, il Brasile di Falcao e la finalissima con la Germania di Gerd Muller, battuta 3-1. È il momento dei "Campioni del mondo", la frase tre volte ripetuta in tv dal telecronista Nando Martellini e dell'urlo liberatorio di Marco Tardelli.

Dopo la Spagna sono gli Europei del 1984 il nuovo impegno di Bearzot, ma la Nazionale azzurra non riesce nemmeno a qualificarsi. Poi è la volta dei mondiali del 1986 in Messico, dove l'Italia non brilla (terminando il suo cammino agli ottavi contro la Francia). Dopo questa il "Vecio" lascerà il timone della Nazionale maggiore ad Azeglio Vicini con queste parole: «Per me allenare l'Italia era una vocazione che, con il passare degli anni, è diventata una professione. I valori del gioco sono cambiati dai miei tempi. A causa dello sviluppo del settore e dell'ingresso sulla scena di grandi sponsor, sembra che il denaro abbia spostato i pali delle porte». Una frase che forse sarebbe condivisa dal neopresidente Uefa Michael Platini, allora avversario in campo degli azzurri di Bearzot.

Ad oggi l'Enzo nazionale detiene ancora il record di panchine azzurre: 104, davanti alle 95 del mitico Vittorio Pozzo. Con lui nel calcio azzurro andò al potere l'anima del mediano vecchio stile, un calcio più semplice, dove si parlava in termini collettivi prima che individuali, dell'interesse di tutti prima che delle star celebrate e acclamate dalle curve. Era un ct che ci metteva la faccia: che difendeva i suoi giocatori fino in fondo mettendosi spesso contro tutti, specie contro la stampa. «Quell'Italia poteva vincere solo con lui», dice con convinzione il capitano di allora, Dino Zoff. «Aveva un coraggio straordinario, che altri nella storia non hanno avuto: si mise contro tutti per salvare la squadra. Sapeva scegliere gli uomini, e quanto ne capiva, di pallone. Era il comandante che rischiava in prima persona, non un allenatore da giornale».
«Solo con lui avrei potuto fare quello che ho fatto in Spagna», ammette candidamente "Pablito" Rossi. «Oggi m'avrebbero fatto fuori, giustamente, dopo due partite. Lui insistette e io feci tutti quei gol. Gli devo tutto».

Studio e sudore, onestà e coraggio e anche tanta cultura personale: i suoi giocatori raccontano che con lui potevano parlare di arte e politica, storia e musica per ore.
Il suo grande pregio fu, forse, anche il suo limite: una volta costruito e cementato attorno a sè quel gruppo, non riuscì poi a staccarsene. L'epopea del 1982 si concluse quattro anni dopo, quando la sua Nazionale si presentò in Messico stanca e un po' "bollita". Non seppe rinnovare il gioco, quando il calcio imboccava un'altra via, ma chiuse con onore la sua esperienza con il gruppo che aveva allevato e a cui rimarrà sempre indissolubilmente legato.

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