Le piccole squadre tornano a sognare

di Gigi Garanzini

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Che sarebbe stato il primo e ultimo scudetto della loro storia, i veronesi lo avevano intuito già all'indomani di quella loro conquista del maggio '85: così come, 15 anni prima, era accaduto ai tifosi del Cagliari. Erano società di terza fascia, servivano dunque congiunzioni tecnico-astrali irripetibili perché il miracolo giungesse a compimento. Meno infrequenti, più compatibili con un sistema in cui la forbice tra le tre grandi del nostro calcio era ampia ma non abissale rispetto al resto del gruppo, le stagioni in cui furono le squadre di seconda fascia a tagliare il traguardo: la Fiorentina del '69, la Lazio del '74, e poi Torino, Roma, Napoli 2 volte, Sampdoria.
Scorrendo l'albo d'oro, si nota come fossero parentesi sparse qua e là tra i ripetuti trionfi delle tre squadre con le maglie a strisce: ma intanto c'erano, e oltre a rendere meno scontati i campionati servivano a ribadire il sacrosanto principio dell'alternanza.
A rileggerla oggi, sembra di parlare della belle époque. Spazzata via, a partire dal '94, dal patto di ferro tra Juventus e Milan, la cui diarchia al vertice è stata interrotta solo da Lazio e Roma, ma a prezzo di un doppio fallimento, e dall'Inter nel dopo-calciopoli.
Trattandosi di storia più recente, si può forse sorvolare sulle tappe. A patto di sottolineare tre volte con la matita blu lo storico errore del '99, allorché, per provare a spezzare il duopolio, le società medio-piccole guidate da Franco Sensi imposero la vendita individuale, e non più collettiva, dei diritti televisivi, diventati nel frattempo, e di gran lunga, la principale risorsa economica delle società calcistiche.
Non servì molto tempo per capire che si trattava della classica vittoria di Pirro. Ma sono passati otto anni, e alcuni cadaveri eccellenti a cominciare da Carraro e Giraudo, per tornare attraverso la vendita collettiva dei diritti a una più equa distribuzione delle risorse. Che riduce in misura accettabile gli introiti delle tre grandi, cui certo non mancano altre fonti di reddito, a cominciare dai ricavi derivanti dalla Champions League: ma aumenta in modo significativo le quote di spettanza delle società medio-piccole che, se non competere, possono con una gestione oculata, perlomeno sopravvivere con dignità.
Non si tornerà ai tempi in cui per una trasferta delle grandi in provincia era d'obbligo la tripla: ma una x accanto al segno 2, se dal 2010 ancora si giocherà al Totocalcio, potrebbe tornare ad avere un senso. E non è detto che un'Udinese, con quei quattrini in più da investire in una brillante politica di vivaio internazionale, non possa prima o poi permettersi di sognare in grande.
Tutto questo non servirà a riportare allo stadio il grande pubblico che ormai si è rassegnato, per le ragioni che sappiamo e sono drammaticamente d'attualità, al calcio da salotto.
Il fatto stesso che il pallone viva quasi esclusivamente di televisione la dice lunga sul presente e sul futuro di questo sport, o spettacolo, a piacere. Il calcio a domicilio è diventato un'autodifesa, rispetto ai pericoli là fuori: e una piacevole e pigra abitudine, cui derogare con cautela.
Come fa Paolo Conte, che di tanto in tanto torna a vedere le vecchie casacche grigie dell'Alessandria: ma quando c'è il gol si guarda intorno smarrito, perché gli manca il replay.

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