Mente e cuore per una storia a lieto fine

di Massimo Donaddio

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20 gennaio 2009

Una storia a lieto fine. Di quelle che ancora ti permettono di amare il calcio. Una bandiera che continua a sventolare pura, senza macchia, anche controvento, quando questo soffia forte, e si porta dietro l'odore del denaro. Una storia a lieto fine per il Milan, i suoi tifosi, e per il calcio italiano, che potrà ancora contare sulle magie di un fuoriclasse come Kakà, campione in campo e fuori. Elogio doveroso, anche se può sembrare retorico, qundo ti sventolano davanti tante mazzette di euro che ci puoi dormire comodamente sopra, quasi fosse il letto di Zio Paperone.

La trattativa con il ricchissimo emiro di Abu Dhabi, che voleva l'asso carioca per lanciare la sfida del suo Manchester City alla Premier League, è fallita, perchè Kakà «ha deciso con il cuore», ha detto no ai soldi (110 milioni di euro al Milan più 15 al giocatore per 5 anni) per restare e diventare ancora più decisivo nel club rossonero. Non deve essere stata una scelta facile, possiamo immaginare. Questa volta il Milan non aveva spettato un attimo nell'aprire la trattativa con gli emiri di Abu Dhabi, che detengono, tra l'altro, oltre il 2% di Mediaset: al di là delle dichiarazioni di incrollabile stima per il giocatore, l'offerta era troppo grande per essere sottovalutata, e il Milan sarebbe stato disposto anche a cedere Kakà e incassare i soldi.

Il peso della decisione, in questo caso, si è scaricato interamente sulle spalle del giocatore, la cui parola è stata determinante. E allora, come tutte le decisioni, i fattori risolutivi sono molteplici: i consigli dei familiari, il sostegno e il rispetto dei compagni di squadra, l'affetto dei tifosi - che per Kakà sono scesi in piazza, gli hanno manifestato tutto il loro attaccamento nella gara emozionante contro la Fiorentina, lo hanno acclamato sotto casa, a Milano, durante i momenti più difficili della trattativa -, le convizioni profonde (il giocatore ha ribadito la sua fede e ha detto di «aver pregato molto per ottenere da Dio un'indicazione»). Fin qui le ragioni dell'uomo Ricardo Izecson dos Santos Leite, in arte Kakà, tutte nobilissime (anche se, si può aggiungere, con 9 milioni e rotti l'anno si può comunque dormire sonni tranquilli anche a Milano..).

Poi ci sono le ragioni del calciatore, altrettanto importanti: vero che Kakà non ha sempre condiviso, pur nella sua discrezione, la politica di mercato rossonera, ossia l'arrivo di campioni dai nomi altisonanti ma nella fase declinante della carriera, che lo hanno costretto a volte ad antipatici adattamenti di ruolo e a superlavori in copertura; vero che l'assetto della squadra può non averlo lasciato sempre tranquillo sulla coerenza del progetto di ritorno immediato nel calcio che conta e nell'amata Champions League; e però Kakà nella sua scelta, in verità, ha fatto qualcosa di profondamenta razionale: ha scelto la storia, ha scelto di rimanere in un club al vertice mondiale quanto a esperienza e a proiezione internazionale, ha scelto un blasone, ha scelto di mettersi alla guida del ritorno rossonero nell'elite del calcio europeo, se il cammino in campionato si confermerà sui livelli attuali.

Il Manchester City, oggi, è solo un grande cantiere: soldi tanti, ma un grande club si costruisce negli anni con competenze, alchimie, storia, tradizione, conoscenze calcistiche che non si inventano e non sempre si comprano. Mark Hughes, tecnico del City, non è Carlo Ancelotti: non ne ha l'esperienza e forse nemmeno la capacità di gestire campioni dal nome e dalla storia così impegnativa. Tutto questo ha pensato Ricardo Izecson dos Santos Leite, in arte Kakà: ancora una volta, il ragazzo prodigio, l'uomo che sorprende, il campione dalla faccia pulita e, soprattutto, dalla vista acuta.

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