All'estero la serie A non piace più

di Giuliano Balestreri

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26 maggio 2009

Dai diritti globali100 milioni, mentre la Premier ne incassa 320. Stadi vecchi, violenza e gioco scadente allontanano le tv europee. Tiene solo l'Asia


Campionato di serie A? No, thanks. Ma anche nein danke. Non c'è verso, inglesi e tedeschi proprio non riescono a digerire il nostro campionato. E non è un problema di orario o di commercializzazione, è proprio una questione di appeal. Violenza, incertezza, stadi fatiscenti, grandi campioni che lasciano l'Italia e giocatori più impegnati a simulare che a segnare. Un calcio mercato che tutti giurano essere all'insegna dell'austerity e dei giovani, salvo poi fare come la Juventus che sì chiuderà il bilancio in pareggio ma ha messo in vendita De Ceglie (22 anni) e acquistato Cannavaro (35 anni).

«La credibilità del nostro calcio è minata e per noi è davvero demoralizzante provare a vendere il prodotto all'estero», racconta Riccardo Silva fondatore di M&P Silva una delle due società (l'altra è il tandem Rai Trade e Sport 5) che commercializza all'estero i diritti tv della serie A. Un mercato da vale 85 milioni di euro l'anno, ma che da 10 anni ha iniziato una lenta involuzione. Oggi la Premiership inglese incassa 320 milioni, la Liga spagnola 100. Restano indietro la Germania (40 milioni) e la Francia (25 milioni), ma i trend messi in mostra sono positivi.

«Fino ad oggi è mancata la forza collettiva per vendere all'estero un prodotto di valore, si è preferito puntare sulle singole squadre. Non si è valorizzato il campionato e questo è il risultato», dice Giovanni Palazzi presidente di StageUp. Un risultato evidente. Da due anni gli inglesi preferiscono comperare il calcio spagnolo e alle italiane restano solo le briciole. Due anni fa la società di Silva ha regalato a Channel 5 una partita a settimana, lo scorso campionato non ci è riuscito, «nemmeno sfruttando l'effetto Beckham». Eppure dal punto di vista tecnico sono stati fatti molti passi avanti, gli esperti spiegano che la qualità delle immagini è «ottima», ma non basta.
Il primo problema è legato agli scandali del nostro calcio. «Si paga ancora calciopoli, ricostruire la credibilità sarà molto difficile», aggiunge Silva. Sarà un caso, ma in effetti sono proprio tre anni che gli inglesi hanno smesso di investire sul calcio italiano.

Un secondo aspetto negativo è legato all'immagine della violenza. In Gran Bretagna i ricordi degli hooligans sono troppo recenti per non voler prendere le distanze dall'Italia e in Giappone sono ancora scioccanti dall'omicidio dell'ispettore Filippo Raciti prima di Catania-Palermo. «Allora sembrava concreta la possibilità di fermare il campionato – prosegue Silva –, gli investitori stranieri non hanno intenzioni di prendersi certi rischi e nemmeno di trasmettere immagini di violenza». Insomma chi compra il calcio vuole lo spettacolo, le grandi giocate non certo gli scontri tra tifosi. Il terzo problema riguarda gli stadi. Troppo vecchi e troppo vuoti. Il campo è recintato e spesso tra giocatori e pubblico c'è anche una pista di atletica. Quello piace – e molto – dell'Inghilterra è proprio la mancanza di barriere, la corsa dei giocatori ad abbracciare i propri tifosi dopo un gol. Qualcosa che in Italia sembra davvero impossibile.

Un'altra questione è legata all'incertezza. Premiership e Liga spagnola pubblicano i calendari dei campionati all'inizio dell'estate già con gli orari di anticipi e posticipi. In Italia invece bisogna aspettare agosto e gli orari sono suscettibili delle decisioni dei prefetti che impongono modifiche in base ad eventuali problemi di sicurezza. «La buona notizia – si consola Silva – è che dal 2010 una partita si giocherà alle 12.45 per venire incontro al mercato asiatico».

L'ultimo problema, ma poi è una semplice conseguenza, dipende dal livello tecnico del nostro campionato. La partenza di Kakà e il ritorno di Cannavaro non scalda certo l'immaginario di spagnoli, cinesi o tedeschi. Così come il fallimento nelle coppe europee, chi non arriva alle semifinali di Champions League resta praticamente sconosciuto. E gli errori del passato continueranno a pesare a lungo. Il processo di austerity metterà a posto i bilanci, ma difficilmente riporterà in alto il calcio italiano. Troppo poco si è investito sui giovani e sul rapporto con il pubblico. E così quella di oggi è un immagine che all'estero pochi vogliono comprare. Preferiscono rispondere, con educazione, no thanks.

26 maggio 2009
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