Rendiamo onore all'Italia senza medaglie

di Giuseppe Ceretti

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21 agosto 2009

E' Valerio Cleri il salvatore della patria sportiva. Chi è Valerio Cleri? Popolo ingrato. Il generoso atleta è la medaglia d'oro della 25 chilometri di nuoto dei mondiali, per ora unico maschio italiano ad aver vinto una competizione in quest'estate italiana, tanto calda quanto avara di gioie. Un combattente che è riuscito a superare avversari e onde del mare di Ostia. A Berlino, invece, anche Alex Schwazer, impegnato nella massacrante gara della 50 chilometri, ha deluso le nostre aspettative. L'estroverso bolzanino non è riuscito a salvarci dall'onta di uscire dai mondiali d'atletica di Berlino senza un alloro al maschile.

Le avvisaglie si erano colte alle olimpiadi di Pechino dello scorso anno: tante medaglie, ma in prevalenza da scherma, tiri al bersaglio e altre discipline neglette che vengono buone solo quando si tratta di fare i conti con il medagliere. Un generoso contributo che ha steso una coltre di silenzio sulla assenza di grandi atleti italiani nella disciplina regina. A ciò si aggiunge un evidente calo in tutti gli sport di squadra che pure in passato hanno regalato copiosi allori.
Dai mondiali in vasca all'atletica di Berlino è una galleria di rimpianti, di occasioni perdute, di molti generosi piazzamenti a ridosso del podio, di forma svanita proprio alla vigilia della gara della vita. L'Italia tricolore stavolta non è stata salvata, come accaduto nel nuoto, dalla donne. Anche l'ultima carta, Antonietta Di Martino, ha conquistato solo un quarto posto nel salto in alto. Comunque finisca, il movimento sportivo femminile può tuttavia vantare quest'anno un degno palmarés e non solo per via delle nove medaglie conquistate in acqua. Flavia Pennetta è riuscita, prima donna italiana, a trovare un posto tra le prime dieci del mondo tennistico.

Per i maschi, al contrario, è stata una stagione tutta da dimenticare. Solo la marcia lascia intravedere giovani di buona levatura, capaci di raccogliere l'eredità di tanti campioni che hanno raccolto in 11 mondiali ben 12 medaglie (5 ori, 4 argenti e 3 bronzi). Il resto, velocità, mezzofondo, fondo, lanci e salti è un panorama poco confortante. A livelli mondiali s'intende e senza offesa ai tanti generosi che s'impegnano per l'intero anno nelle rispettive specialità. Ma qui stiamo parlando di podi, di medaglie, cioè di quanto interessa all'Italia dei sedentari nelle poche ore di un eventuale trionfo tricolore. Dal giorno dopo, tutto si dimentica: Valerio Cleri, chi era costui?

Difficile rintracciare un motivo dominante di tanto declino. Se dovessimo dar retta al nuotatore Marin, con i suoi dichiarati amplessi pre-gara con Federica Pellegrini, tutto sarebbe risolto con una sana astinenza.

Ma abbiamo il fondato sospetto che la questione sia assai più complessa.
Si va così dall'accusa a Coni e federazioni di non offrire sufficienti opportunità agli atleti, al radicale mutamento del panorama mondiale in pochi anni. Non abbiamo fatto in tempo a tirare un sospiro di sollievo per lo sgonfiamento dei muscoli dopati dell'Est Europa e ora ci tocca fare i conti con un lotto di concorrenti che si è fatto più numeroso e composito. L'etiope Abebe Bikila, che vinceva la maratona di Roma cinquant'anni fa a piedi nudi, è un'icona d'altri tempi e oggi gli atleti delle nazioni d'Africa, per fare un esempio, monopolizzano le gare delle corse a medio e lungo raggio. Per non dire della velocità pura, dai 100 ai 400 appannaggio dei caraibici. Si fatica a rintracciare un'atleta del vecchio Continente in grado di entrare in una finale. Povera, vecchia Europa. Fermiamoci qui per non addentrarci senza competenze nella foresta delle diversità delle strutture osteo-muscolari.

Tutte ottime ragioni, eppure non siamo più in apparenza quel popolo di sedentari di trenta-quarant'anni anni fa. Palestre, piscine e parchi, sono zeppe di donne e uomini preoccupati di muscoli e forza fisica, muniti di costose scarpe che ti fanno volare e rimbalzare come piuma, di conta-passi, frequenzimetri e ogni diavoleria possibile.

E allora? Proviamo ad avanzare un timido sospetto. In questo consesso di potenziali professionisti, latitano i giovanissimi, cioè coloro che possono davvero rappresentare il futuro. Per lo più si fa pratica sportiva quanto le velleità agonistiche sono al tramonto e le necessità di linea e buona salute salgono. La scuola italiana in stato comatoso ha altro di cui occuparsi. Insomma, mancano i presupposti e l'atletica è un insieme di discipline che comporta enormi sacrifici sin dall'età precoce, non sempre sostenuti da adeguate contropartite.

Qui non ci sono magnati, sponsor e tv che gettano fiumi di denaro e così le schiere degli aspiranti si assottigliano. Non saremo più un popolo di sedentari, ma i modelli vincenti ci paiono altri. E in atletica solo quella freccia umana che risponde al nome di Usain Bolt e un pugno d'eroi si ricoprono di denaro e successo.

Perciò, anche se torniamo da Berlino con le pive nel sacco, dobbiamo a maggior ragione tributare un interminabile applauso ai nostri atleti che vivono pochi minuti di gloria in diretta tv e promettono riscatto alla prossima occasione. Quando li vediamo arrivare senza fiato davanti ai microfoni, abbiamo un moto di istintiva simpatia. Di questi mondiali d'atletica ci piace ricordare le lacrime della marciatrice Riguado, versate sotto le immense volte della porta di Brandeburgo, per aver perduto l'occasione della vita, preparata con tanta cura e sacrifici. In un Paese dall'insopportabile pianto finto a comando, un pianto vero fa davvero venire un groppo alla gola. Sarà pure un'italiana sconfitta, ma a lei e ai suoi colleghi di spedizione che hanno dato l'anima, prima di ogni immancabile processo, va la nostra solidarietà.

21 agosto 2009
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