Il pubblico è crossmediale, ma le rilevazioni sui media fanno finta di non saperlo. Le persone che nel corso della giornata ascoltano la radio, leggono il giornale, consultano internet e guardano la tv sono esseri umani che vengono vivisezionati da Audiradio, Audipress, Auditel e Audiweb in ascoltatori, lettori, spettatori e internettiani. Anche quando i singoli contenuti editoriali, dai programmi agli articoli, sono a loro volta pensati e costruiti per essere crossmediali.
Ma con l'avanzare della digitalizzazione e con l'avvento del pubblico attivo - che fruisce, produce e distribuisce contenuti via web - la domanda di rilevazioni capaci di tener conto della crossmedialità si fa pressante.
E, come ha dimostrato un servizio di «Nòva24» pubblicato il 7 giugno scorso, pubblicitari, editori e statistici sono impegnati a cercare l'unità di misura comune a tutti i media. E, dal punto di vista metodologico, non hanno dubbi: quell'unità di misura non può che essere il tempo che le persone dedicano ai media.
Lo share, in questo modo, cambia significato. E diventa la misura di quanta parte della popolazione sta fruendo dei diversi contenuti disponibili attraverso i diversi media.
Questo cambiamento, per ora soltanto ipotizzato, avrebbe conseguenze fondamentali per il business. Perché influirebbe in modo pesante sulla scelta dei budget da allocare sui diversi media. Oggi la quota di tempo mediatico che il pubblico passa su internet è più alta della sua quota dei budget pubblicitari. Ma domani potrebbe non esserlo più.