In un certo senso la si potrebbe chiamare l'equazione irrisolta di Venezia. Il problema difficile affrontato nella tre giorni alla Fondazione Cini sul futuro della scienza della scorsa settimana. Tema: la crisi climatica e la giusta risposta, innanzitutto in tema di energie pulite.
Il primo termine dell'equazione, ancora piena di incognite e di variabili incerte, lo ha spiegato, in un video inviato via internet il famoso ecologo inglese James Lovelock, il padre dell'ipotesi Gaia, colui che per primo, via cibernetica e scienza dei sistemi, ha raffigurato la Terra come un organismo vivente, capace di risposte anche non lineari. E l'ultimo libro di Lovelock, The revenge of Gaia, ha letteralmente impaurito il mondo: prevede una crisi climatica auto-cumulativa, con destertificazione di gran parte del pianeta (salvo i poli) e riduzione drastica del genere umano. «Se vogliamo fermare un processo che ci porterà a un pianeta come è il Sahara oggi – ha detto Lovelock nel suo video – l'unica è puntare rapidamente e in modo massiccio sulla grande energia pulita che nutre l'universo: il nucleare».
Una tesi netta, persino brutale. Specie se proveniente da un ecologista che dieci anni fa vedeva il nucleare come il diavolo. Ma oggi la scala di priorità sembra cambiata. Il cambiamento climatico non lineare, cumulativo e improvviso, è oggi il terreno di ricerca dagli scienziati della Nasa (che studiano il troppo rapido scioglimento dei ghiacci dell'artico e della Groelandia) e del principale consigliere climatico di Angela Merkel, Joachim Shellnuber, ex fisico teorico oggi a capo del Potsdam Istitute, un migliaio di scienziati al lavoro proprio sui modelli climatici non lineari. E la sua previsione a Venezia fissa (provvisoriamente) una data limite, il 2070. Di questo passo, senza una rivoluzione energetica, il gran ballo potrebbe cominciare allora. E, una volta in moto, sarà davvero difficile fermarlo.
Il nucleare, quindi, come una delle grandi armi energetiche (con il solare, l'eolico, il geotermico, la riforestazione, le biomasse, l'alcool via enzimi biotech da cellulosa...) per la sopravvivenza dell'umanità. Sì, ma quale nucleare?
Ed è qui l'equazione difficile. Il nucleare di oggi è concettualmente ancora quello di Fermi. Usa l'uranio (arricchito), ma piuttosto male, solo in una prima "spremitura". Il resto sono scorie, sia di uranio che di pericoloso plutonio, a misura di bombe. Mentre la risorsa base uranio sta diventando relativamente scarsa. Secondo Michale Dittmar dell'Eth di Zurigo le riserve conosciute non superano i cinquant'anni, ai ritmi attuali. Che potrebbero però ridursi a trenta se Cina, India e Russia dovessero accelerare i loro grandi programmi sul nucleare tradizionale.
Troppo poco. Una centrale tradizionale costruita oggi entrerebbe in funzione nel 2020 e avrebbe solo vent'anni di autonomia. Ecco quindi il primo obiettivo della ricerca: trovare nuovi modi per allungare la vita della risorsa base. Recuperando l'uranio dalle scorie (già lo si fa sia in Usa che in Europa), creando combustibili misti (Mox, misti di ossidi di uranio e plutonio), ripensando, anche alle fondamenta, le centrali stesse.
Per questo il mondo oggi corre, sulla ricerca. La pistola del clima è puntata, e il vecchio scudo nucleare troppo piccolo. La Global nuclear energy partnership, lanciata da meno di un anno dal Doe Usa, ha coinvolto a razzo oggi tredici Paesi e prevede iniziative come la messa al sicuro del plutonio (reso inutilizzabile per farne bombe), la gestione in comune delle scorie, la ricerca sul loro riutilizzo. E così la cosiddetta quarta generazione nucleare. «In realtà un aggregato di ben otto filoni di ricerca avanzata - spiega Rubbia - alcuni che si escludono l'un l'altro. E non certo per domani». Secondo Maurizio Cumo, docente di impianti nucleari a Roma, la quarta generazione arriverà, se va bene, al 2030.
Il Governo italiano vuole esserci, sulla ricerca. A Vienna, all'assemblea dell'Iaea (l'agenzia Onu sul nucleare), ha ufficialmente chiesto la candidatura a entrare sia nel Gnep che nel club della quarta generazione.
Ma per fare cosa? La quarta generazione vuol dire tutto e il suo contrario. Si va dalla riedizione ingegneristica dei reattori veloci a plutonio, sodio e acqua (i breeder), «talmente pericolosi e instabili da essere stati di fatto spenti in tutto mondo, negli scorsi decenni», osserva Rubbia». Verranno riaperti per disperazione? Oppure sostuiti dai prototipi di breeder a piombo, a acqua supercritica (altissima temperatura e altissima pressione) e così via. «Tutte frontiere dove non ci siamo, e dove è ormai tardi per entrare, dice Rubbia».
L'Italia, oggi, ha sì pochi ingegneri nucleari ma molti fisici, e di alta qualità. «Dobbiamo puntare su un progetto che nel 2003, all'Enea, ci è stato incomprensibilmente cancellato - dice Rubbia –. Un acceleratore di particelle capace di bombardare con neutroni il plutonio, trarne energia e progressivamente trasmutarlo, bruciarlo, fino a renderlo inoffensivo. Ci saremmo risolti il problema delle scorie con una macchina da 500 milioni, già progettata da anni al Cern, e avremmo avuto energia pulita, a sicurezza intrinseca, autospegnente».
Oggi Start è uno dei programmi europei di punta sulla quarta generazione. L'Italia si è autoesclusa. E se vogliamo rientrare nel club della ricerca nucleare facciamolo pure. Ma almeno con un'idea nostra. E da Nobel.