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«Rivoluzione Lcd»: la Tv fra passato e futuro secondo il Signor Mivar

di Gianni Rusconi

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2 aprile 2008
Carlo Vichi

Carlo Vichi è un imprenditore che non la manda a dire a nessuno, classe politica compresa. Un personaggio (così l'hanno definito in tanti) che ancora oggi non usa il computer e tanto meno il cellulare, che si professa un uomo libero e che crede fermamente in un'economia basata sul lavoro. Un uomo che continua a mostrare orgogliosamente le proprie "memorie storiche", dattiloscritte e contenute in una cartella gialla tenuta nel cassetto del suo tavolo da lavoro posizionato all'ingresso del laboratorio, il cuore della sua fabbrica.

La Mivar, la Milano Vichi Apparecchi Radio da lui fondata nel lontano 1945, non attraversa certo un momento felice della sua brillante storia ma Vichi, 85 anni portati benissimo, non si è ancora arreso. Arreso all'evidenza di un mercato, quello dei televisori, che sempre più sta diventando una torta da spartire fra pochi grandi colossi. L'avanzata vorticosa degli Lcd ha forse spiazzato oltre il dovuto la società milanese, che fino alla fine degli anni '90 dominava le vendite di Tv in Italia catturando il 34% della domanda e produceva la bellezza di poco meno di un milione di apparecchi (988mila i Tv prodotti nel 2000 dal 14 al 32 pollici, tutti a tubo catodico) l'anno. Oggi le politiche commerciali operate dalle varie Samsung, Sony e via dicendo, il "cartello" venutosi a creare fra i grandi vendor asiatici (al cui carro si è attaccata Philips, con la joint venture con Lg Electronics) per quanto riguarda lo sviluppo e la produzione a volumi di pannelli a schermo piatto e la desolante penuria di fornitori nostrani di componentistica elettronica mettono un'azienda come quella di Vichi all'angolo. Costringendola a salti mortali, anche sul fronte della gestione del personale, per rimanere "in vita" e a pagare inesorabilmente dazio sui tempi di sviluppo dei nuovi prodotti: 10 anni fa il gap veniva assorbito dal fatto che un nuovo Tv stava sul mercato almeno tre anni, oggi l'update tecnologico è ogni 12 mesi al massimo e fa specie pensare che i circuiti integrati per il Full Hd in Mivar arriveranno solo fra qualche tempo. La gloria del recente passato è quindi scivolata dietro la necessità di riconvertire con notevoli investimenti le linee di produzione (per gli Lcd) e il presente è fatto da incombenze che sono il gestire l'approvvigionamento di materia prima (pannelli Lcd in testa) come una sorta di terno al lotto (comprare da Chimei o da Samsung, entrambi per diversi motivi diretti concorrenti?) in cui i soli vincitori sono i fornitori cinesi e del Far East e il reggere la pressione sui prezzi di vendita con un esercizio quotidiano che si materializza lavorando su pochi (pochissimi) euro di margine. Senza rinnegare però, e non è una questione da poco, la filosofia che l'ha portata a primeggiare fino a pochi anni fa al cospetto delle grandi firme dell'elettronica di consumo.

Sebbene messa a dura prova – la Mivar si è forse cullata un po' troppo sui propri allori e non ha colto per tempo il cambiamento anche se Vichi non ha certo lesinato sforzi per sostenere l'urto di un mercato in forte evoluzione – parliamo sempre e comunque di un'azienda in cui il televisore non viene banalmente assemblato ma studiato, industrializzato e quindi prodotto. Che non ha mai considerato l'idea di specializzarsi in nicchie di mercato (quelle dei Tv extra lusso per esempio, strada maestra di aziende "commerciali" come Keymat o Hantarex) ma ha perseverato nel fare televisori per il grande pubblico. Rispetto a 15 anni fa, però, quando i televisori Mivar (il 14 pollici, che si comprava a 249mila lire, e il 20 pollici soprattutto) si vendevano a ruba nei supermercati la realtà è un'altra: la grande distribuzione preferisce mettere in vetrina altri marchi perchè ottiene prezzi su Lcd e plasma concorrenziali con quelli dei Crt e per il "televisore italiano" (così recitava uno degli slogan coniati da Vichi) rimangono aperte solo le porte dei piccoli rivenditori e dei negozi al dettaglio rimastigli fedeli.

Le difficoltà sono evidenti ma pochi riflettono sul fatto che Mivar, costretta dagli eventi a lasciare del tutto inoperosa la nuova fabbrica gioiello terminata nel 2001 e pensata per produrre due milione di televisori l'anno, è l'ultimo baluardo non solo del Tv "made in Italy" (negli anni '90 erano circa una dozzina i produttori attivi, Philips compresa, nel Bel Paese) ma di un'intera generazione di aziende italiane di successo nel campo dell'elettronica e della meccanica. Quando Vichi definisce l'Italia "un Paese e un sistema morto, da anni", forse intende proprio questo e l'aver tenuto duro fino a oggi - "senza doversi piegare a nessuno" - è per lui un motivo di grande soddisfazione. Detto che Vichi non vede di buon occhio (eufemismo) anche il diktat delle autorità competenti circa il definitivo e ormai prossimo passaggio alle trasmissioni in digitale (per cui il ministero delle Comunicazioni ha stanziato di recente ulteriori 55 milioni di euro, di cui 35 a favore della Rai, per l'adeguamento degli impianti), c'è un'ultima cosa da chiarire: chi pensa che il Signor Mivar sia rimasto fermo all'idea che il tubo catodico sia ancora la tecnologia vincente si sbaglia di grosso. E non solo perché nel catalogo formato tascabile, così diverso dalle brochure patinate a cui siamo spesso abituati, circa la metà dei televisori proposti sono a cristalli liquidi.

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