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La società di mutuo racconto

di Luca De Biase

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10 Aprile 2008

Molto dipende da come la società si racconta. Il dibattito sulle decisioni da prendere. La critica del potere. La visione delle opportunità. Il progetto per il futuro. Persino il senso di fiducia col quale si affronta la vita.
La società si racconta con le voci dei suoi narratori, ma anche con il suono di fondo delle strutture mediatiche che questi utilizzano. Ebbene: il secondo sta cambiando più delle prime, in questo passaggio epocale dalla linearità dell'industria tradizionale alla complessità dell'era della conoscenza. La filiera semplice che andava dalle poche fonti dell'informazione alle redazioni giornalistiche e alle forme controllate della distribuzione tradizionale, via edicola e via etere, si sta trasformando in un ecosistema nel quale le voci che narrano la società si sovrappongono attraverso mille percorsi: le istituzioni informano direttamente sui loro siti, le aziende fanno le loro tv e i loro notiziari, le redazioni giornalistiche estendono il loro lavoro su piattaforme crossmediali, il pubblico – centinaia di migliaia di persone – partecipa attivamente al reperimento e alla critica delle notizie. La complessità genera ricchezza di idee e abbondanza di problemi.
Valorizzare le idee senza affogare nei problemi è ormai un bisogno tanto importante che si dedica sempre più spazio all'informazione sul sistema dell'informazione.

Il senso di quello che la società dice di sé è un territorio di indagine sconfinato. La Fondazione Rosselli, il Censis, la Nielsen, l'Eurisko e molti altri centri di ricerca sfornano dati sulla dieta mediatica degli italiani, sullo stato di salute degli editori, sui comportamenti del pubblico: si scopre, ovviamente, che da anni i media tradizionali crescono poco o addirittura in qualche caso perdono pubblico, mentre l'informazione online progredisce. Ma intanto i mercati finanziari si preoccupano del recente rallentamento del numero di click sulle inserzioni pubblicitarie ospitate da Google. E Chris Anderson, visionario dell'editoria elettronica e autore de La coda lunga, afferma che la raccolta pubblicitaria dei giornali non va poi così male come sembra: sarà anche diminuita rispetto all'anno scorso ma è pur sempre il doppio di venticinque anni fa. Allo stesso tempo, il New York Times dedica una storia approfondita sui problemi di salute dei blogger e, per esempio, racconta di Michael Arrington il fondatore di Techcrunch, un blog specializzato in cronache sulla tecnologia e divenuto popolarissimo: ha attirato inserzioni pubblicitarie per milioni di dollari, ma Anderson, che lavora in casa e vi ospita anche i quattro collaboratori con i quali produce il suo flusso ininterrotto di notizie, è ingrassato di 15 chili in tre anni e ha sviluppato gravi disordini del sonno. Si direbbe che paventando una bolla del web 2.0, questi osservatori cerchino tutti i segnali deboli di un possibile rallentamento della dinamica internettiana.

Come in un labirinto di specchi si può perdere l'orientamento cercando di descrivere come una notizia cambi di significato a seconda del contesto interpretativo che l'accoglie e la pubblica. I frame contano spesso più dei fatti. In un certo contesto, i blog sono interpretati come un potenziale contropotere, per i cittadini e in opposizione ai media tradizionali visti come "fabbriche del consenso". In un altro contesto, si nota come un sito di informazione sociale come YouTube accetti la cancellazione di un video imbarazzante per un manager della Telecom Italia (vedere l'articolo a pagina 13) mentre i grandi quotidiani, insieme ai piccoli blogger, ne danno abbondantemente conto.
In effetti, la visione che interpreta le nuove strutture informative nate sul web come se fossero destinate a vivere in opposizione ai media tradizionali fino a quando sarà stampata "l'ultima copia di carta del New York Times" appare in via di superamento. Aveva senso quando i giornali tradizionali non ascoltavano minimamente quello che diceva il pubblico attivo in rete. Ma oggi lo citano, contribuiscono e dialogano. Potrebbero fare di più. Ma hanno avviato una pratica piuttosto chiara.

Ebbene. Da dove nasce e dove porta il dialogo tra vecchi e nuovi produttori di informazione?
Certamente deriva dall'ineluttabilità dell'avvento di un'epoca in cui il pubblico può essere molto più attivo: sia nella consultazione diretta delle fonti ufficiali – dai siti delle istituzioni, per esempio, ai vari servizi che pubblicano le statistiche finanziarie; sia nella produzione di notizie, nella critica di quelle pubblicate da altri e nella conversazione creativa su divesi argomenti. Da questa tendenza, abilitata dalla grande opportunità di internet, i produttori professionali di informazione deducono la necessità di ridefinire il proprio ruolo. E coerentemente la cercano.
Il dialogo con il pubblico diventa pratica corrente. L'attenzione a quanto pubblicano le persone sui siti di scambio di video e foto entra a far parte del mestiere giornalistico. E l'apertura dei giornali al contributo dei blogger supera in qualche caso la fase della sperimentazione. Intanto, l'esplorazione delle modalità crossmediali di narrazione giornalistica va avanti, tra le mille difficoltà inevitabili per la lenta maturazione di modelli di business consequenziali con questo approccio.

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