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Prigioniero di Facebook

di Andrea Bajani

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10 NOVEMBRE 2008
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Anche tu ti senti prigioniero di Facebook?
La radio ora si ascolta con Live Messenger

Da settimane incontro soltanto persone che mi dicono disperate che vogliono uscire da Facebook ma non riescono a farlo. Lo dicono con gli occhi sbarrati e l'espressione di chi chiede aiuto da dietro le inferriate di una galera. Mi sembrano detenuti che dall'alto urlano a chi passa lì sotto, infilano le braccia oltre le sbarre a rimestare nell'aria. Hanno tutta la disperazione di chi sa che il secondino se n'è andato lanciando la chiave nel fiume. È strano pensare che quelle stesse persone fino a un mese fa mi dicevano che senza Facebook non ci potevano stare, che grazie a Facebook si sentivano meglio.

Soprattutto, mi ripetevano che dovevo provarla anch'io, quest'esperienza, perché essere dentro o essere fuori, era come prendere parte alla vita oppure essere morto. Essere «in» oppure essere «out». C'è stato un momento, che perdura, in cui era impossibile sfuggire a conversazioni che non avessero a che fare con Facebook. Qualunque fosse l'origine della discussione, qualunque fosse il fiume di parole che veniva giù dalle bocche delle persone, il mare in cui andava a finire era sempre quello di Facebook.

C'erano amici che quando mi incontravano per strada mi chiedevano «Ci sei su Facebook?». Che era come dire «È inutile perdere tempo qui sul marciapiede, con le macchine che passano, i clacson che non ci fanno parlare, il telefonino, la fretta». «Ci sei su Facebook?», e poi mi piantavano in asso. Li vedevo andar via di schiena, il cellulare tra l'orecchio e la spalla, in mano l'agenda e davanti gli altri che si aprivano come il Mar Rosso davanti a Mosè. Se parlavano di qualcuno, ne parlavano per dire che l'avevano incontrato su Facebook.

Un vecchio amico, un professore di liceo dimenticato, un ex vicino di ombrellone. Persino in questi giorni, quando si parla della vittoria epocale di Obama, si dice che è stata epocale anche perché c'era Facebook.

Così sono entrato «in» pure io. L'ho fatto un po' per sfinimento e un po' per riuscire a parlare con quegli amici che per strada mi piantavano in asso dandomi poi appuntamento su Facebook.

In strada erano sempre di corsa, su Facebook stavano a parlare per ore. Perché «in» è tutto molto più tranquillo. Il mio ingresso l'ho fatto una sera di un paio di mesi fa, seguendo con attenzione le procedure. Ci sono entrato con la leggera apprensione che mi imperla le tempie ogni volta che mi avvicino a un oggetto con funzionamento appena più complesso della televisione. Di Facebook sapevo quasi tutto quel che c'era da sapere. Sapevo che si trattava di aprirsi una pagina personale, di scegliere una foto, di inserire qualche informazione su di me, la mia data di nascita, il mestiere, le mie passioni. Lo sapevo perché un'amica mi aveva fatto vedere la sua pagina. Quando l'avevo vista avevo capito che si trattava di aprirsi una specie di loculo, una tomba con la foto che guarda in faccia i passanti, che appunto passano e se hanno voglia lasciano dei bigliettini, cambiano l'acqua dei fiori. Appena ha saputo che ero entrato anche io, la mia amica era contenta e orgogliosa. Era contenta di esserne stata un po' responsabile. Così non dovevamo più vederci per prendere un caffè in corsa, con i telefonini che suonano, le macchine, la fretta. I due mesi che ho trascorso su Facebook sono stati piuttosto movimentati. All'inizio mi arrivavano molte «richieste di amicizia» e io le ignoravo perché non sapevo chi fossero queste persone. Poi la mia amica mi ha detto che la regola di Facebook era di accettare le «richieste di amicizia», e che dunque la mia condotta era una condotta antisociale. Così da quel momento in poi ogni volta che mi è arrivata una richiesta io ho accettato. In due mesi sono diventato per così dire amico di quattrocento persone di cui non sapevo nulla, e di cui ora conosco la foto che hanno messo sul loculo e poco più. Mi sono trovato a conversare a notte fonda con uomini e donne che mi trattavano come se fossi il loro migliore amico, o mi maltrattavano come il peggior nemico. Mi sono visto tacciare di snobismo per non aver risposto, insultare per aver tardato ad accettare una così detta amicizia.

Ogni volta che ho fatto accesso alla mia pagina, qualche sconosciuto di cui avevo accettato la così detta amicizia si è affacciato da una finestrella dicendomi «Eccoti qui», come se fosse stato tutta la notte appostato dentro il mio androne aspettando di vedermi rientrare. Ho saputo di adulteri di persone più o meno famose scoperte grazie a Facebook, visto che su Facebook tutti vedono tutto quello in cui ciascuno è affaccendato. Sono stato contattato da compagni delle elementari, delle medie e delle superiori. Alcuni di loro hanno voluto a tutti i costi mandarmi delle fotografie per farmi vedere come eravamo. Se penso a tutti gli anni che ci ho messo, per riuscire a dimenticare come eravamo. Poi sono stato contattato da prime, seconde e terze fidanzate, che mi hanno detto «Ti ricordi?». Poi da amici di amici di amici persi a ragione e rimasti (a ragione) relegati in un passato lontano. Ho ricevuto inviti a unirmi a gruppi di ogni tipo, dall'«Obama party» al movimento «Antibimbominkia ». Di quest'ultimo movimento, che impiega il proprio tempo nel manifestare dissenso nei confronti dei seguaci dei Tokio Hotel, ho cominciato a ricevere ogni tipo di segnalazione: «No al bimbominkia su Facebook», «Il bimbominkia si è evoluto in orribile Sfigadulto », «Contro i Bimbominkia per un mondo migliore». Poi: sono stato contattato per ogni tipo di sottoscrizione, per comprare cd, libri, per partecipare a inaugurazioni di negozi, pedalate sociali, per provare prodotti cosmetici, unirmi a merende ambientaliste, ripensare alla rivoluzione maoista.

Ecco, dopo due mesi così ho chiesto disperato ai miei amici di uscirne. E loro disperati, con gli occhi sbarrati, mi hanno detto che non sanno come fare, che ci hanno provato ma non capiscono come si fa, quale procedura si debba seguire. Ne parliamo su Facebook, ciascuno dietro la propria inferriata, le braccia oltre le sbarre a rimestare nell'aria. E così, da qui, da dietro la mia grata mi è venuto in mente Michel Foucault, quando parla del Panopticon di Bentham. «Ogni giorno, anche il sindaco passa per la strada di cui è responsabile; si ferma davanti a ogni casa; fa mettere tutti gli abitanti alle finestre. Ciascuno chiuso nella sua gabbia, ciascuno alla sua finestra, rispondendo al proprio nome, mostrandosi quando glielo si chiede . Questa sorveglianza si basa su un sistema di registrazione permanente». All'inizio della «serrata» viene stabilito il ruolo di tutti gli abitanti presenti nella città, uno per uno; vi si riporta «il nome, l'età, il sesso, senza eccezione di condizione». È un sistema, dice Foucault, che ha un effetto sicuro: «indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il finzionamento automatico del potere perché l'essenziale è che egli sappia di essere osservato». Ne parlo anche con i miei così detti amici, di questo passo di Foucault. Gli dico che è dentro un libro che si intitola Sorvegliare e punire. Più che dirglielo, glielo urlo dalla finestra.

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