(È in corso a Firenze e sarà visitabile fino al 24 novembre prossimo, nella Sala d'arme di Palazzo Vecchio, la mostra "Le città invisibili - omaggio a Italo Calvino", con esposte le opere di Pedro Cano. Pubblichiamo a commento un testo di Antonio Natali, storico dell'arte tra i più noti del nostro Paese).
Non c’è luogo più pertinente di Firenze per esporre i grandi fogli dove Pedro Cano ha illustrato le Città invisibili d’Italo Calvino.
Perché Firenze avrebbe potuto essere una di quelle cinquantacinque città. Ne ha i caratteri ideali, fantastici e financo metafisici. Per chi voglia a tutti i costi amarla è perfino indispensabile figurarsela in quel novero. Perché Firenze è bella in astratto. Bella, vista dal sommo d’uno dei monticoli che le fanno serto. Bella, cioè, senza le nostre presenze mediocri. Bella in virtù di presenze semmai, giustappunto, invisibili. Di presenze che fisicamente furono; che l’hanno inventata e fatta; e che tuttora la tengono viva con la memoria nobilissima di sé. Quella loro città non si percepisce coi sensi. Ciò che gli occhi vedono è la muta dismessa; la scorza d’un corpo; di cui solo lo spirito ha il privilegio di godere.
La torre di Arnolfo, coi casamenti che da dietro l’assediano come nel paesaggio urbano d’un buongoverno trecentesco, il vecchio ponte con le stanze sospese sul fiume e la via aerea che lo sovrasta, la cupola maestosa che gareggia coi colli d’intorno e coi tetti di Toscana, sono invero altrove. Quello che resta – gigantografie d’oggetti ricordo per banchi d’ambulanti – è lì in funzione d’una folla per lo più ignara. Folla che conta per quel che porta. E alla fine quel che porta è causa (non sempre involontaria) di nuovo degrado. Perché tutto va visto in fretta; consumato come i pasti freddi ingoiati sui gradini delle chiese e dei loggiati. E non si guarda ciò che merita, ma ciò che tutti gli altri guardano. Un mito dietro l’altro. Sempre gli stessi. Fila dopo fila; e ogni fila ne chiama un’altra ancora. E tutto si usura senza che l’educazione ne guadagni nulla; o poco assai. In una china che si fa ognora più scivolosa.
Ineffabile è invece Firenze (almeno per gli scarni registri delle nostre voci) a vederla dal piazzale nei tramonti di tarda primavera, quando le cimase dei palazzi, i vertici delle torri, le cuspidi dei campanili e i profili delle calotte sui presbitèri, s’arrossano di fianco, e quasi flottano sui tetti delle case a distesa, nell’aria tersa della stagione bella che precede la cappa dell’afa estiva.
Di lassù c’è il rischio d’immaginarsela – e fors’anche di preferirla – vuota. Ch’è come dir morta, però. Meglio sarebbe invece pensarla popolata di un’umanità più consapevole e generosa. Calvino avrebbe saputo descriverla questa città di ‘cavalieri inesistenti’, questa città ammirata dai suoi abitanti, che la guardano “contemplando affascinati la propria assenza”, come verisimilmente fanno gli uomini di Bauci.
A noialtri tocca vagheggiare una città invisibile. Che dunque non c’è; ma potrebbe esserci stata. E, almeno in parte, ancora possibile: la piazza dei Signori ammattonata in cotto con le statue colossali posate sul rosso tappeto spartito da liste grigie di pietra serena; l’ampio soffitto di vetro posato su esili pilastri bianchi, che la lieve sensibilità d’un orientale ha innestato sulla solida fabbrica degli Uffizi per darle un’uscita discreta (in sintonia formale cogli edifici medievali attigui e però aggiornata sui tempi correnti); il mercato vecchio popolato di gente che si muove intorno alla colonna della Dovizia; i chiassi del ghetto accerchianti i palazzi signorili; i bicromi marmi albertiani a incrostare la facciata della basilica di Santa Maria Novella, che volge le spalle alla razionalistica stazione dei treni col suo lungo e dorato prospetto di pietra forte, e, poco discosta, quella nuova, coperta da una flessuosa superficie trasparente, unico tratto in vista di un’architettura che esplica le sue funzioni vitali in piani affondati nel sottosuolo; la fortezza, lì accanto, con le mura possenti che s’alzano su prati ariosi, lasciati a perimetro di rispetto e ombreggiati da piante di chioma larga; e poi le cortine d’alberi che laggiù, in periferia, sommergono i pochi nastri d’asfalto rimasti in superficie, mentre agli altri snodi viari s’è ingiunto un tragitto nel ventre dei colli, così tornati primitivi, coi loro coronamenti d’edifici conventuali; e finalmente, verso la piana, a valle, gli svettanti piloni inclinati che sostengono l’ultimo valico sull’Arno.
Meglio una città invisibile, d’una città invivibile; che non è un facile gioco di parole, ma una constatazione sottesa alla scrittura stessa delle pagine di Calvino; constatazione da lui stesso peraltro avvalorata: “Che cosa è oggi la città, per noi? – si chiedeva Calvino in una conferenza newyorchese del 1983 –. Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili”. I fiorentini conoscono bene la difficoltà di vivere Firenze. Città svenduta a un turismo frettoloso (e talora villano), più che offerta allo stupore dei tanti che verrebbero per godere dal vivo le vestigia d’una cultura grande. Città che non sa incutere il rispetto di sé, perché i suoi abitanti, per primi, dimostrano sovente per lei di non averne.
Riflessione amara; ma da tener ben presente quando succede che un suo monumento venga offeso e mutilato, e al fine di scongiurare altri consimili eventi futuri s’invochi un inasprimento delle pene per chi ne sia responsabile. Giusta, e perfino inevitabile, pretesa. Solo che senza prima ritessere la trama (oggi a dir poco sfibrata) dell’appartenenza a una civiltà e a una storia d’alto lignaggio, e senza adoprarsi per ricostruire la coscienza d’un patrimonio pregiatissimo gratuitamente ereditato, tutto sarà inutile: una condanna severa (e, ovviamente, anche certa) è un deterrente soltanto per colui ch’è consapevole dell’ingiuria che porta. Gli eventi odierni, tuttavia, paiono attestare che molti sono ormai incapaci di distinguere un marmo scolpito nel Cinquecento da una roccia da scalare.
Mi sarebbe piaciuto che Pedro Cano si fosse ispirato anche alla Firenze che non c’è. Inventandosela lui; magari attingendo a qualcuno di questi spunti. Il che poi avrebbe corrisposto a quanto egli ha fatto con le "città" di Calvino; giacché Pedro ha sentito forte il fascino dell’immaginazione di lui, e lo ha seguito come un lettore appassionato su per le scale impervie della fantasia letteraria, ma fin dalle prime carte ci s’avvede che non ne è stato illustratore fedele. Non disegna, Pedro, l’epifanie poetiche di Calvino. Ne assume casomai un dettaglio e su quello lavora. Si potrebbe con una qualche crudezza dire che arrivi talora a disinteressarsi dello spirito connotativo delle "città" descritte; ma certo è intensamente partecipe di una, almeno, fra le prerogative che ognuna d’esse manifesta, anche se spesso non si tratta neppur di quella cui Calvino sembra tributare maggior trasporto.
Le peculiarità su cui Pedro si concentra son quelle congeniali – com’è però naturale – alla sua indole gitana, alla sua cultura da iberico d’altri tempi: un po’ cristiano e un po’ islamico, un po’ latino e un po’ saraceno. I primi quattro luoghi la dicono lunga. Diomira – città che Calvino descrive opulenta d’eleganze – Pedro se la figura sorvegliata da due statue di giovani eroi antichi, immersa in una luce dorata che s’accende sulle tante cupole ribassate; come fosse appunto una città araba sottomessa dai Romani. Da Isidora – città che vive nelle memorie nostalgiche dell’uomo – Pedro espunge un tratto ch’è di mero ornamento: la conchiglia (cui s’attengono, nella forma, le scale dei palazzi; che di conchiglie son peraltro incrostate). Ma la conchiglia – cara anche a Lorca per la sua capacità d’evocare suoni e luoghi – ha una forma moresca che incanta il pittore e lo distoglie dal seguito del rendiconto, pur intriso di ben altre estrose meraviglie. Dell’umanistica geometria di Dorotea e delle sue cabale fondate sulle mercanzie, Pedro non si dà pensiero: l’attraggono le torri di metallo che s’alzano sulle mura, quasi fosse un fortilizio del deserto, ricovero di cammellieri; e una palma si drizza in prima vista (di fusto agile e d’esili fronde) a suggerire il miraggio di un’epifania improvvisa fra le dune distese senza fine. E lo stesso càpita con Zaira; città che, nella sostanza, consiste nei rapporti fra gli spazi che la compongono e gli eventi della sua storia (o della sua cronaca). Ma, di nuovo, Pedro – colpito da quel che all’inizio Calvino declama riguardo a quel posto, e cioè dalle torri e dalle scalinate – tira linee rette, zigzaga coi merli, traccia archi d’accesso ad androni rabbuiati d’ombra, disegna processioni di gradini, e poi su tutto fa calare la luce rossa che nelle ore vespertine stagna di caldo sulle lande del medioriente.
Il pittore non perde mai d’occhio la sua guida nelle terre della poesia; ma da lui si stacca quando sulla carta decide di lasciare un ricordo del paese in cui è stato condotto. Par quasi che l’uomo di lettere additi al compagno lo spirito del luogo dove si son fermati, e invece lo sguardo dell’artista si distragga per posarsi in un angolo riposto, uno di quelli che sommuovono il suo cuore, che ridestano sentimenti vissuti, tempi e affetti trascorsi, e pur sempre vivi.
Un po’ come accade – lo s’è visto in una mostra fiorentina appena un anno or sono – negli erbarî che lui compila ritraendo la varietà della natura; dove ogni frutto si guadagna i suoi fogli. E un catalogo ne sorte, stilato per la memoria del poeta e per quella dei suoi consentanei; un inventario d’emozioni e di stati d’animo. Anche negli orti, Pedro s’aggira lento. Attento al passare della luce. Quella – gialla bruciata o rossovinata – delle terre mediterranee. Le sue effigi vegetali hanno i colori dei meriggi caldi e sospesi. Pile di carte fatte a mano – tutte uguali nelle misure (per solito gentili), eppure differenti l’una dall’altra nei loro sfrangiati margini – raccolgono un repertorio di frutti e d’erbe, prezioso e soave, che registra non già le apparenze, bensì piuttosto le sensazioni ch’esse schiudono.
Lo stesso fa coi luoghi, figurati nei suoi taccuini di viaggio. Pedro ha lo spirito nomade, pur amando le dimore che s’è scelto (dai posti scabri della Murcia, ai lidi freschi d’un lago del centr’Italia). Si muove nel mondo dandosi pochi punti fermi; a principiare dalla durata dei soggiorni (partì per l’America con l’intenzione di starci pochi mesi e ci rimase cinque anni). Sente forte il piacere di conoscere paesi a lui ignoti; ma non ha l’inquietudine di chi, giunto in una contrada, pensa già alla meta di domani. Sempre avverte la necessità di fissare con tocchi rapidi d’acquerello, alla stregua di subitanei flash, almeno le impressioni, che nei suoi movimenti (intorno casa o in regioni remote) prova; intense o vibratili che siano. E sono per solito dettagli che fanno pulsare la sua vena poetica; angoli appunto riposti, conforme a quanto gli succede nel caso delle "città invisibili".
Ci se n’accorge scopertamente ad Anastasia. Calvino avvisa che l’anima di quel luogo sono il desiderio e l’inganno che ne segue. Il resto – canali, aquiloni, fagiani dorati, agate, onici e calcedonî – sono parvenze. Ma insieme trapelano scene di donne immerse in vasche, che invitano i viandanti a spogliarsi e a far con loro giochi d’acqua sensuali. Questo è quello che attrae Pedro: un pensiero di voluttà coltivato al di fuori d’un harem: la donna nuda se ne sta accucciata in una piscina rivestita di piastrelle invetriate azzurre e verdi, come nel più segreto bagno turco.
Di Zirma c’è chi ricorda miriadi di dirigibili che volano all’altezza delle finestre e treni stipati di femmine grasse che viaggiano sotto terra; ma c’è, per converso, chi rammenta un solo dirigibile e un solo treno con una sola donna. Eppure Pedro è attratto da quelli che sulla via disegnano tatuaggi, e dai marinai che se li fanno graffire sulla pelle; sicché l’immagine che lui serba della città è tutta sul dorso d’un uomo dove l’ago ha delineato paesaggi urbani con logge rotonde, cupole a spicchi e svettanti minareti. Com’è in fondo l’azzurra visione di Fedora; ch’è racchiusa in una sfera di vetro (e par quasi in attesa di un’impossibile nevicata artificiale): muri di calce per un agglomerato di scatole regolari che s’arroccano fra rare palme. E in ogni stanza una sfera con un’altra possibile Fedora; e tutte però – t’aspetti – d’araba invenzione.
Anche quando Calvino descrive Zenobia, e ognuno, leggendo le pagine di lui, potrebbe figurarsela come un gran villaggio primordiale (per via delle palafitte piantate in terra asciutta), o come le ‘carceri’ di Piranesi (per l’intersecarsi di scale, ballatoî e marciapiedi pensili), se non addirittura come la metropoli di Lang (per la vita che vien facile indovinare in quell’andirivieni di su e giù), Pedro n’ascolta il racconto, ma la sua fantasia è trattenuta dall’idea dei grandi belvedere coi tetti a cono, erti su pali altissimi, fra i quali pur sempre lascia aggallare, in una nebbia gialloviola, il profilo della cultura islamica.
Quando invece Calvino fantastica di Zobeide, città nata dai sogni d’uomini di nazioni disparate, il paese che sorte dalla mente di Pedro (con le vie che, come in un gomitolo, girano su se stesse) ha la conformazione d’uno di quelli medievali che s’inerpicano sui nostri rilievi d’entroterra, poco discosti però dai lidi marini; dove la torre merlata del palazzo di governo compete in altezza col campanile della chiesa accanto; e, tutt’intorno, a far corona, i tetti di mille case d’architettura mediterranea.
È in Sofronia, città per metà smontabile in vista di nuove e diverse ubicazioni, che l’eclettismo culturale di Pedro invece si palesa. Da una valigia aperta – pronta per l’ennesimo trasloco – spuntano le cupole della fede mussulmana, le facciate di basiliche cristiane, il frontone d’un antico tempio greco. Ma subito dopo c’è Eutropia, città di tante città, dov’è la gente – stavolta – a spostarsi come su una scacchiera, quando l’uggia del quotidiano induce a differenti vite. E basta trasferirsi di poco, nei quasi identici spazi vuoti lì vicini; e prendervi dimora, pur seguitando i soliti riti dell’esistenza. La quale però il posto inedito tramuta. Pedro allora si finge una distesa di muri paralleli (con rade aperture di finestre), talora franti dal passaggio d’una strada: città cresciuta in un deserto di Tartari, che viene di pensare spopolata ma in procinto d’esser pulsante di presenze, qui pervenute in seguito alla migrazione da un consimile sito. Città che sarà dunque un po’ fantasma; almeno finché non verranno i suoi abitanti.
Mentre fantasma sarà davvero Ersilia, città di cui restano gl’innumerevoli fili, che furon tesi a ribadire le molteplici relazioni parentali in essa strette. Fili lasciati lì da chi, dopo averci condotto la propria esistenza, s’è trovato costretto a spatriare, per esser l’intrico d’essi venuto troppo fitto. Storia però destinata, periodicamente, a ripetersi. Sicché nelle terre praticate da quelle genti rimangono, al pari di lievi rovine sospese, le ragnatele di vicende umane trascorse. Paesaggio assorto; calato in una stagione senza tempo; uno di quelli consoni alla sensibilità di Pedro. Ed è la stessa aria di Bauci. Di cui nulla invero si può dire se non dei lunghissimi trampoli che la sostengono sopra le nubi, lontani da un suolo su cui raramente gli abitanti scendono: una nuvolaglia violacea e strappata dipingono gli acquerelli di Pedro; e in essa – aerea e perfino liquida – affondano i sottili pilastri di sostegno, alla stregua d’una folta foresta d’alberi senza chioma. Non c’è ombra d’uomo. Solo il silenzio dei grandi vuoti.
Che si ritroverà stagnante e poetico sulle vestigia di Clarice, città che sembra incarnare il destino dei nostri paesi, sovraccarichi di storia; dove la melanconica consapevolezza della caducità è l’unico sentimento nobile che aleggi. E Pedro immagina Clarice come un labirinto di monumentali reliquie petrose; una specie di Pompei a volo d’uccello (una piccola Roma come doveva apparire agli occhi d’un pittore di primo Cinquecento: inquietante e struggente). Ma l’artista d’oggi coglie a pretesto una figura bella che il letterato ha lasciato cadere fra le righe del suo rendiconto – il basilico piantato nelle urne cinerarie di marmo – per suggerire l’idea d’una natura all’apparenza fragile e però resistente e rigogliosa: in un moderno kantaros verde smeraldo, posto sul parapetto d’un tetto a terrazza, s’intrecciano, in un cespo di foglie, le piante di basilico, come fossero l’erbe verdi o i flessibili arbusti che ostinati crescono sulle macerie dell’antico. Vibra qui la vena lirica di Pedro, pittore d’orti mediterranei. E insieme canta – con pochi e veloci tocchi di pennello imbevuto d’acque tinte – la sua capacità di ritrarre la bellezza delicata, e nel contempo forte, di frutta e fiori.
Di tanto in tanto un simulacro umano s’azzarda a farsi comprimario delle scene di Pedro. Accade a Perinzia, città fondata sui calcoli scrupolosi di astronomi sapienti, che, trovandosi in seguito al cospetto di un’umanità deforme e sofferente, generata dalla loro invenzione urbanistica, ancora sono a chiedersi se i conti siano stati sbagliati fin dagli esordi o se invece proprio quel luogo di mostri non sia specchio dell’ordine degli dei. E Pedro disegna una fuga precipite di fornici, da cui entra una luce accecante e calda, mentre nell’oscurità del margine una creatura ancipite e macrocefala, contorcendosi, lamenta la sua condizione.
A illustrare invece Cecilia – accanto a due defilate cartoline di paesaggi collinosi e montani, scelti come paradigmi evocativi delle terre che contornano le città del mondo e tra loro si frappongono – Pedro ritrae a tutto campo un volto intenso di vecchio, invero più somigliante a un filosofo nordico d’inizio Novecento che al pastore da Calvino reso protagonista di Cecilia. Le sue fattezze dovrebbero proporre quelle del capraio incapace di distinguere una città dall’altra, essendo per lui – quelle – soltanto posti senza foglie, venuti su negli spazi tra i pascoli a spaventare i greggi. E invece le sembianze che il pittore gli rimette, lo assimilano a quelle d’un pensatore rassegnato; che alla fine però è proprio quel che rivela d’essere il capraio di Cecilia; il quale saggiamente s’è accorto del “rimescolamento” dei luoghi (della ‘globalizzazione’ dovremmo dire, ora che anche la lingua s’è ridotta a pochi topoi consumati dall’abuso). È il capraio a schiudere gli occhi di Marco Polo (e i nostri). È l’uomo che vive con le bestie e le conduce alle tante pasture ad avvisare che “Cecilia è dappertutto”. Che la fantasia s’è spenta. E che le città – esiti peculiari di progetti cui hanno concorso l’estro e l’intelligenza di tanti uomini decisi a diventar comunità – s’annullano nella banale e parodistica emulazione della civiltà dominante, scomparendo nelle nebbie basse e dense dell’uniformità.
Pessimismo – questo di Calvino – che trova conferma nella grigia descrizione di Pentesilea; città acquitrinosa e plumbea, dalla quale è difficile uscire, ammesso che un fuori ci sia. Ma è qui – quasi all’explicit dei viaggi – che Pedro manifesta il suo auspicio di redenzione, la sua fiducia che i segni dell’appiattimento vengano còlti, che la luce dei cieli tersi torni a illuminare città diverse, come diverso è l’animo umano ch’è sotteso alla conformazione d’ognuna di loro. La sua Pentesilea non somiglia a quella che lasciano presagire le parole di Calvino. Anche in quella effigiata sulla carta non si troveranno tracce d’una cultura evoluta; ma non si coglierà neppure un barlume dello squallore in cui ristagna la Pentesilea letteraria. Quella dipinta è una terra che il sole avvampa. Terra rocciosa e brulla; che sembra perfino inaccessibile alla vita. Ma i raggi che accendono d’un fulgore vivido i pochi muri e il bel cielo azzurrodenso che la sovrasta e sul quale essa anzi si protende come un promontorio sull’infinito, sono premonizioni d’una rinascita possibile. È forse il primordio di un’età nuova; che si reputa possa germinare in una regione ancestrale, d’aspra tettonica e di clima rovente: la Magna Grecia (della cultura), la Murcia (del cuore).