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Borghesi in attesa per il ballo in casa Kampf

di Silvia Giuberti

Una vignetta umoristica sosteneva che la maturità è una fase, mentre è l’adolescenza a durare per tutta la vita.

Ipotesi tutt’altro che infondata, di cui pare essere conferma, letteraria e di grande spessore, il breve romanzo della scrittrice Irène Némirovsky “Il ballo”. Scritto nel 1928 ma pubblicato due anni dopo, il libro è stato consacrato dalla critica come un capolavoro dedicato al tema del delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Eppure, nella perfetta sintesi di ironia crudele e ridicola drammaticità, per la quale “Il ballo“ è stato a più voci definito un classico, immediato e folgorante, una colorita miniatura che si fa lente di ingrandimento; in quella terra di conflitti e contraddizioni, tra madre e figlia, tra moglie e marito, tra nuovi ricchi e signori di consolidata fama, tra passato malfamato e presente ripulito dal luccichio dell’agiatezza, la tipica irrequietezza adolescenziale e il senso abnorme dell’Attesa accomunano, in realtà, la quattordicenne Antoinette e i suoi adulti genitori, Signore e Signora Kampf.
Ed è proprio l’attesa del ballo organizzato dai Kampf, arricchiti grazie a una fortunata operazione in Borsa, per ufficializzare il proprio ingresso nell’ambigua tribù della crème, a smascherare un valzer di impietosi sentimenti. Laddove nessuno pare andare a tempo e inevitabile è pestarsi i piedi. Perché ad aprire le danze è, in realtà, la vendetta -terribile, assoluta- di Antoinette che, già donna nei propri sogni, bambina per i distratti ma calcolatori genitori, non ha ottenuto il permesso di partecipare a quella serata che rappresenta per l’una e per gli altri l’inizio della vita.
“Affrettarsi a vivere…a piacere agli uomini, ad amare” è il comune, inconfessato e pur categorico imperativo che misura le distanze tra madre e figlia. E se la freschezza dei quattordici anni è pietra d’inciampo per la signora Kampf –capelli tinti di color oro splendente quale immediata dichiarazione di sopraggiunta agiatezza, profusione di gioielli e perline a ornare l’abito da sera, quasi che il loro smodato numero rendesse, per incanto, inversamente proporzionale il conto degli anni- adibire a zona bar la cameretta di Antoinette, relegata per la notte nel ripostiglio, ben simboleggia il conflitto tra la Prepotenza -sognante e vitale- di una vita che sboccia e l’Egoismo -misero e fuori tempo- di una vita adulta che cerca ancora di schiudersi dalle proprie frustrazioni.
Bugie, goffa ricerca di un’identità, timore del giudizio altrui, gli altri come specchio dei propri desideri e di se stessi, l’amore romantico come garanzia di vita: è la nota sintomatologia di quel malessere, forse davvero ricorrente, che è l’adolescenza. E se un tale prisma di emozioni è delineato in Antoinette con essenziale maestria (personaggio non a caso paragonato ad altre indimenticabili figure quali la signorina Else di Schnitzler), altrettanto lucida e rivelatrice appare l’ambiziosa, maldestra avventura dei coniugi Kampf alla ricerca di affermazione sociale. E se i domestici di casa –“…sono proprio loro che costruiscono le reputazioni andando da un posto all’altro e chiacchierando…”- suscitano soggezione in chi non ha ancora acquisito la disinvolta autorevolezza dei veri signori; se, nell’incertezza sovrana, si vorrebbe già terminato quel ballo tanto atteso, che è solo il primo passo di una lunga serie di reciproci e ipocriti corteggiamenti -“Se ti danno uno schiaffo, porgi l’altra guancia…Il bel mondo è la migliore scuola di umiltà cristiana”-, dietro l’organizzazione di un evento mondano svelano la loro trama le illusioni della vita. Non importa che a tirarne le fila sia la vendetta di una ragazzina pronta a spiccare il volo, stupita che anche gli adulti soffrano “per cose futili e passeggere”. In fondo, dietro ad ogni porta che si apre, c’è di nuovo una sala di attesa.
Attesa che ha curiosamente segnato il percorso letterario dell’autrice stessa. Irène Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, figlia di un ricco banchiere di origine ebrea che, in seguito alla rivoluzione Bolscevica, si stabilì con la famiglia prima in Finlandia e poi in Francia, dove ricostruì la propria fortuna, fu una giovane e prolifica scrittrice che esordì sotto pseudonimo. Sposata e madre di due figli, proseguì la sua carriera sino all’arresto e la deportazione ad Auschwitz. Dove, nonostante i disperati tentativi del suo editore per ottenerne la liberazione, morì nel 1942. Fu a partire dal dopoguerra che sulla sua brillante produzione calò il silenzio. E solo nel 2004 l’autrice è stata addirittura insignita del prestigioso Prix Renaudot, assegnato in via del tutto eccezionale a titolo postumo, dopo la pubblicazione del romanzo (ora in via di traduzione in ben venticinque paesi) “Suite francaise”. Un romanzo che è rimasto inedito, in Attesa, per più di sessant’anni.

Silvia Giuberti
“Il ballo” di Irène Némirovsky Adelphi
pagg.83, euro 7,00



 

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