4 novembre 2005 |
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Dacia Maraini: «Di Pasolini mi manca il senso dell'indignazione»S. Bio. |
«A trent'anni dalla sua morte sento la mancanza della sua presenza familiare, come cittadina mi manca la sua lucidità, il suo giudizio sulle cose che accadono nel nostro paese» dice la scrittrice Dacia Maraini, che di Pier Paolo Pasolini fu per lungo tempo amica. Alle prese con una tosse come piccolo male di stagione, la scrittrice toscana che ha raccontato dell'intellettuale friulano in Ho sognato una stazione. Gli affetti, i valori, le passioni poi aggiunge: «Soprattutto di Pier Paolo mi manca il suo senso di indignazione. Quell'indignazione che è fondamentale per l'etica di un paese. Un'indignazione che il poeta, il linguista e l'uomo di talento che erano in lui sapevano esprimere con parole uniche».
Signora Maraini, frugando tra i suoi ricordi come descriverebbe l'uomo e l'amico Pier Paolo Pasolini ?
«Era un uomo mite, dolcissimo; di lui ricordo la voce soave, che non alzava mai: Pasolini non si arrabbiava mai, neppure quando le idee non coincidevano. Mai aggressivo. Piuttosto era particolarmente silenzioso. Non era sicuramente quel che si dice un uomo di conversazione: ma il suo era un silenzio di presenza e non di assenza, non avevi mai la sensazione che la sua testa vagasse altrove, anzi la sua era una presenza che definirei corposa, anche nel silenzio. E questo era un aspetto molto bello del suo carattere».
Guardando ai suoi numerosi scritti, romanzi, poesie, interventi corsari, dove ritrova maggiormente il «suo spirito»?
«Quel che io prediligo è senz'altro il poeta. Apprezzo moltissimo il suo cinema e il suo teatro, ma mi emoziona di più la sua poesia, che ho visto nascere. Ricordo come durante il nostro viaggio in Africa (la scrittrice visitò il continente in compagnia di Pasolini, di Alberto Moravia e di Maria Callas, ndr) buttava giù appunti, e parole sui quadernetti che aveva con sè. Gli piaceva inventare titoli, che talvolta venivano prima degli scritti. Ricordo che si alzava alla mattina e subito ci proponeva due, tre titoli molto belli. Aveva un talento innato per i titoli, che talvolta rimanevano tali perché né la poesia, né il racconto vi facevano seguito».
Come giudicherebbe oggi Pasolini la nostra Italia, dove la realtà spesso è tale solo in quanto appare in tv. Per dirla con lui , oggi assistiamo a «una mutazione antropologica» in senso televisivo?
«Non posso dire quello che lui direbbe perché Pasolini era imprevedibile. Certamente conoscendolo sarebbe stato molto critico, credo disgustato dall'aspetto spettacolare e di basso livello che ci pervade: tutto si fa in televisione, politica e messaggi di ogni genere se non passano per la tv non riscuotono l'attenzione degli italiani. E questo è un danno evidente, con la semplificazione della realtà che la superficialità televisiva comporta. Ma la realtà è molto complicata e Pasolini lo sapeva. No, non potrei davvero prevedere le sue reazioni, perché la sua genialità consisteva anche nella sua imprevedibilità».
Di poeti ne nascono pochi in un secolo, disse Moravia in occasione della sua commemorazione. Perché oggi più che mai se ne sente terribilmente l'assenza ?
«E' vero, si sente questa mancanza. Oggi i poeti non mancano: ma di poeti civili, così completi, poeti che sono al contempo osservatori, analisti dei loro tempi, intellettuali, profeti... questo tipo di poeti a tutto tondo è effettivamente raro. Aveva ragione Alberto (Moravia, ndr) a dire che ne nasce uno al secolo».
Enzo Siciliano mette in guardia dal rischio di scambiare la parabola terminale dell'uomo Pasolini con la verità più intima e profonda che PPP ha fornito con la sua poetica...
«La visibilità passa attraverso i media, ed è vero che in tal senso sembra distorcere e volgarizzare la sua memoria. Ma se non si fosse fatto, se solo non ci fosse stato tutto questo parlare, scrivere, riportare le parole di Pasolini, sarebbe stata una colpevole dimenticanza».
Secondo lei l'autore di Ragazzi di vita e Le ceneri di Gramsci riuscirebbe ancora oggi a fare scandalo, intendo in una società ormai avvezza agli eccessi come la nostra?
«Il suo fare scandalo aveva una cifra cristiana: ricorda il Cristo che dice come sia opportuno fare scandalo. Non era lo scandalo dei pettegolezzi, quello di Pasolini, ma del dire l'indicibile, la verità. Nonostante la grande libertà di parola odierna sento poco parlare di verità. Ci si parla addosso, ci si insulta, ma in pochi affrontano con chiarezza la verità».
A proposito di verità, arriveremo ad una verità indiscutibile sulla sua morte?
«Dopo trent' anni l'uomo condannato e considerato finora l'unico assassino di Pasolini (Piero Pelosi ) ha detto con tranquillità non sono stato io, non ero solo (nel corso di un'intervista di Franca Leosini in "Le ombre del giallo", il programma televisivo trasmesso da Rai 3 sabato 7 maggio 2005, dove accusa del delitto tre sconosciuti, tre giovani che parlavano con un accento del Sud, ndr). Ma non gli credo. Trent'anni fa lo dicemmo noi che non poteva essere solo, i suoi vestiti erano lindi, troppo puliti per aver commesso un delitto così efferato. Credo che Pelosi sappia e non voglia dire chi sono i veri responsabili. Ma il nostro è un paese di misteri, ne abbiamo cinque o sei che ancora non sono stati risolti. Ustica è ancora li. Non vorrei che anche questo diventasse tale. Di certo per ora il Comune di Roma si è costituito come parte lesa. Spero che questo porti a un qualcosa, a ricominciare le indagini e a riaprire il processo anche se in ritardo».
Alcuni film di Pasolini sono introvabili, penso a La Ricotta (1963) per esempio: è solo marketing o continua l'ostracismo?
«Le due cose si intrecciano: l'ostracismo, l'autocensura dei distributori, un insieme di cose che non favoriscono il cinema forte di Pasolini, i suoi film scandalosi e non consolatori , il suo mettere il dito nella piaga... tutto questo favorisce un clima generale di rifiuto».
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