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17 novembre 2005

L'animale morente di Philip Roth

di Silvia Giuberti

“Cominciò stranamente”: è il c’era una volta della vita stessa.

In cui tutto ciò che è considerato normale e ‘dentro’ gli schemi del reale ha, in verità, un’origine strana, etimologicamente ‘fuori’ dalla nostra capacità di comprensione. Eppure basta una metamorfosi, un inconsueto cambiamento della materia, perché il concetto di straordinario irrompa nella quotidianità: “Conosco quella prospettiva da cui ogni cosa appare terrificante e misteriosa. Rifletti sull’eternità, considera, se ne sei capace, l’oblio, e tutto diventa un portento”. Parole assennate di un seno. Prosperosa, portentosa e solitaria mole mammaria –settanta chili per un metro e ottanta di altezza- con tanto di nome, cognome e titolo: Professor David Kepesh.
Protagonista del romanzo “L’animale morente” di Philip Roth, il professore di letteratura Kepesh fece la sua prima apparizione nel racconto “Il seno”, pubblicato nel 1972 e proposto per la prima volta in Italia nel ’73 con il titolo –curiosa alternativa- “La mammella”.
Un inspiegabile arrossamento color ciliegia all’inguine, quattro ore di agonia – giusto a partire dalla mezzanotte, “l’ora delle trasformazioni in ogni storia dell’orrore che si rispetti”- e la filosofica lucidità del Professore si ritrova miscelata, tra ghiandole e adipe, in un improbabile e compromesso sistema di funzioni vitali la cui “architettura fondamentale…è quella di un seno di un mammifero femmina”.
Attenzione ai desideri più folli, potrebbero diventare realtà: è l’ammonimento di Kepesh che, opponendo l’ipotetica morale di una favola alla prosaica scientificità della “catastrofe endocrinopatica” siglata dal referto medico, confessa di aver invidiato in passato la complessa e armoniosa sensibilità erotica femminile. Ma “la realtà è più grandiosa. La realtà ha più stile”. E ragioni oscure che –senza fiaba né morale-mettono in gabbia i più arditi svolazzi della fantasia.
Una soda gabbia di carne rosea e ipereccitabile. Parole e udito per comunicare con il mondo invisibile della stanza privata di una clinica, discreta custode –forse- di uno scherzo della natura cui è negata pure la fama mondiale e il sogno di una “Terra delle Opportunità”, di una felicità delirante a misura di Seno.
Senza doveri, una vita di domande e piaceri. Osceno, ingordo, insostenibile Piacere, che, pur tra spray anestetizzanti durante le abluzioni mattutine dell’infermiera Clark e massicce dosi di autocontrollo nelle prestazioni a tempo della mite e accondiscendente fidanzata Claire, stenta a scendere a patti con l’umano Kepesh, in lotta per la sopravvivenza in una giungla di eccitazione. Dove la Normalità stessa è trappola o finzione. Che sia l’imperturbabile appello alla “forza di carattere” e “volontà di vivere” dello psicanalista Klinger o gli aneddoti –matrimoni, traslochi o funerali di amici e conoscenti- che il padre racconta una volta la settimana nelle visite al figlio fatto seno.
Scomodare tutto, dunque, fuorché la Realtà: dalla psicanalisi (la metamorfosi come escamotage per non spezzare il rapporto di dipendenza dall’analista) all’arte (la parola fatta carne, per un’overdose delle grandi fantasie metamorfiche spacciate dagli amati Kafka, Gogol e Swift). Alla ricerca della Follia negata. Nessuna fissazione, recita il dottore. Un seno sano di mente.
Claustrofobico, surreale e impietosamente comico, il racconto stuzzica “il lato ridicolo” che -parola di Kepesh- sta in ogni catastrofe. Lasciando il sospetto che non occorra trasformarsi in seni o scarafaggi, in giganti o volti senza naso per adattarsi, traendone il legittimo piacere, a quella Metamorfosi che –tra banalità e portento- è la nostra vita.


“Il seno” di Philip Roth
Einaudi, pagg.65, euro 8,80



 

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