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13 gennaio 2005

Il giornale di bordo di un esploratore dell'architettura

di Silvia Giuberti

“Navigare” è un verbo che coniuga – in modi, tempi, persone e numeri- esplorazione ed avventura.

L’apparente leggerezza dell’attraversare secoli e mari. Materializzando –tra legno, vele e ferro- la vitale disubbidienza ai limiti che la natura impone e propone alla creatività umana.
“Edificare”, al contrario, è verbo che evoca stabilità e stasi. Volumi più che spazi. Difesa più che rischio. Eppure Renzo Piano da Genova –architetto artista artigiano- racconta la sua avventura di vetro e cemento con ricorrenti riferimenti al mondo nautico. Punta Nave è il nome dello studio genovese –quello della concentrazione e del raccoglimento- che, annullando anche spazialmente le gerarchie all’interno del Renzo Piano Building Workshop, si appoggia sulle balze naturali della costiera ligure in un rincorrersi di aree di lavoro aperte e comunicanti. E il volume (pubblicato da Passigli nell’edizione italiana) che raccoglie genesi e realizzazione delle sue celebri opere, dal ’66 ad oggi, non porta lo scontato titolo di “Diario di cantiere” bensì di un marittimo e avventuroso “Giornale di bordo”. Perché di avventura si tratta. E se mai rimanesse qualche dubbio in tal senso, è lo stesso Piano a sollecitare direttamente il lettore, convincendolo che sogno e passione non sono sostantivi degni di un romanzo d’appendice ma mattoni e puntelli di concrete costruzioni ad altissima tecnologia. La rotta tenace di un esploratore che, per sua stessa definizione “disubbidiente” e curioso come Galileo – che usò il cannocchiale non per avvistare navi ma astri- e inventivo nelle difficoltà come il naufrago Crusoe, considera quello dell’architetto “il mestiere più bello del mondo”. In grado di materializzare “l’Utopia”. Come conquista e, al tempo stesso, “condanna”. Per questo il percorso di Renzo Piano –dagli esperimenti sull’oggetto modulare al rapporto tra l’edificio e il contesto, dal recupero postindustriale alle esigenze di socializzazione, sino al complesso ma imprescindibile innesto tra architettura e urbanistica- afferma e conferma la trasparenza di un luogo-non luogo. Il paradosso di un edificio “non finito”. In grado di adattarsi a rivisitazioni –come il Centre Pompidou di Parigi, ristrutturato e ripensato a distanza di vent’anni dal suo “eretico” inserimento nell’omogeneo contesto del Marais- a tardive richieste di committenti e, soprattutto, al Tempo.
Pubblicato a sette anni dalla prima edizione, “Giornale di bordo” è un sorprendente volume che ripropone i lavori del passato, aggiorna i più recenti e presenta quelli in fase di costruzione. Un libro che si vorrebbe parafrasare più che recensire. Per rimandare in pienezza la sapiente intelligenza dell’artista e la puntuale, colloquiale, anedottica magia della materia che – Piano su Piano- si fa edificio e arte.
E sebbene Renzo Piano – l’antiaccademico figlio laureato di un costruttore senza laurea cui deve la passione per cantieri e gru- rifugga dalla definizione di genio, spiegando il proprio intuito come tecnica ed esperienza metabolizzata, confrontare quei foglietti bianchi a pennarello verde – schizzi, quasi scarabocchi d’autore- mostrati in serie nelle prime pagine del libro, con le fotografie dei capolavori ultimati, rende quasi eterea l’avventura di strutture, fondamenta ed eserciti di operai.
Sostenitore di un umanesimo che all’ ”approccio trasgressivo, anche un po’ insolente” associa “una gratitudine vera, non rituale, verso la storia e verso la natura”, Piano dichiara l’orgoglio per successi e riconoscimenti senza alcuna concessione al narcisismo. Non solo perché l’abile frequentazione della Bellezza non dimentica lo stupore, ma anche perché il lavoro di bottega, di équipe, è riconosciuto come sostanziale nel processo creativo. Nello studio Piano –sottolinea Giulio Macchi in un suo contributo- ognuno è architetto e ancor più “operarius”. E l’idea plana per cerchi concentrici, “come un falco sulla preda”.
Dal New York Times Building, luminoso edificio che trae ispirazione dalla nuova sede de Il Sole 24 ore, traducendo in trasparenza la curiosità e la comunicazione, come simbolo della professione giornalistica, all’Auditorium Paganini di Parma, esempio di recupero di un ex stabilimento industriale in cui l’armonia della musica coinvolge la natura del parco circostante; dalla Maison Hermès di Tokyo, torre a prova di sisma e opacità, nelle sue solide strutture rivestite di piastrelle in vetro che una leggenda metropolitana vuole perfettamente sovrapponibili a un foulard Hermès ripiegato, alla Pierpoint Morgan Library di New York che, contraddicendo la città in verticale, è “uno scrigno sotterraneo” scavato nellla roccia durissima del sottosuolo, i lavori più recenti confermano la capacità di ascoltare il cosiddetto genius loci. E se pure è riconoscibile la cifra stilistica – costruire sottraendo, in un gioco di osmosi tra esterno e interno, volumi e natura, uffici e giardini d’inverno, abitazioni e piazze- lo studio accurato del contesto non si traduce mai in una standardizzata “spazialità Piano”.
E tra cantieri che devono fare i conti con ritrovamenti archeologici e costruzioni che all’archeologia si ispirano in un contesto di grattacieli e traffico, tra aeroporti a forma di aliante costruiti su isole che non c’erano e straordinarie danze delle gru di cantiere, con tanto di direttore d’orchestra, il Giornale di bordo approda infine alla London Bridge Tower. La “scheggia di vetro” che, destinata ad essere la più alta torre d’Europa, promette nuove rotte in quel suo slancio piramidale che, non a caso, “si assottiglia fino a sparire nel cielo come l’albero di una nave”.

Renzo Piano
“Giornale di bordo”
Passigli Editori, pagg.384, euro 39,00



 

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