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26 gennaio 2006 |
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Munich: l'orrore della vendettadi Federica Giovannelli |
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“La vendetta è un piatto che va gustato freddo” recitava un antico proverbio Klingon che, in omaggio a “Star Trek II” (Nicholas Meyer, 1982), funzionava da epigrafe a “Kill Bill” (Quentin Tarantino, 2003/2004). Non c’è dubbio, viviamo in un’epoca a cui questo adagio è quanto mai appropriato e lo dimostrano i numerosi apologhi sulla vendetta che circolano sui nostri schermi in questa difficile alba del nuovo millennio. Per stare soltanto ai film più recenti, oltre al succitato “Kill Bill”, sono esempi imprescindibili della tendenza in atto la trilogia della vendetta di Park Chan-Wook (“Simpathy for Mr. Vengeance”, 2002; “Old Boy”, 2004; “Lady Vendetta”, 2005) e l’attesissimo “V per Vendetta” (2005) di James McTeigue, in uscita nelle sale italiane a marzo.
A questa sintomatica “onda” non sfugge neanche l’ultimo film di Steven Spielberg, “Munich”, che, nella forma di un thriller politico, rimette in scena l’odiosa quanto antica legge dell’occhio per occhio, dente per dente. E lo fa inserendosi a suo modo nella complessa questione riguardante il conflitto israelo-palestinese, ispirandosi a fatti realmente accaduti e traendo spunto dal controverso libro di George Jonas “Vendetta. La storia vera di una missione dell’antiterrorismo israeliano”. Ovvero, la storia della spietata rappresaglia che Israele premeditatamente intraprese contro il gruppo terrorista palestinese noto come Settembre Nero che, durante le Olimpiadi di Monaco del 1972, prima prese in ostaggio e poi uccise barbaramente undici atleti israeliani.
Da sempre, Spielberg alterna pellicole di puro intrattenimento a film almeno negli intenti impegnati, il più delle volte basati su eventi reali e/o su libri storici, più raramente su testi di fiction che affrontano però questioni socialmente e culturalmente rilevanti. Una rapida panoramica servirà a fare il quadro: “Il colore viola” (1985), “Schindler’s List” (1993), “Amistad” (1997), “Salvate il soldato Ryan” (1998). A questo insieme di opere “serie” va ad aggiungersi “Munich”, che vede il “più apertamente ebreo” tra i cineasti americani aggiustare il tiro rispetto a “Schindler’s List” per interrogare i costi morali della violenza sulla difesa dell’identità e sul diritto ad una patria (“un posto sulla terra”) tanto del popolo israeliano che di quello palestinese.
In effetti, se l’antefatto dell’azione è l’attentato terrorista di Monaco, il nucleo del film è costituito dall’implacabile caccia all’uomo perpetrata da cinque agenti dell’antiterrorismo israeliano ingaggiati per attraversare in lungo e in largo l’Europa allo scopo di eliminare uno ad uno i colpevoli del massacro.
Prima che l’agente del Mossad Avner (Eric Bana) lasci Gerusalemme per raggiungere le altre quattro cellule del suo commando nel vecchio continente, il primo ministro israeliano Golda Meir (Lynn Cohen) giustifica la missione che è in procinto di autorizzare con queste parole: “per ogni civiltà arriva il giorno in cui è necessario scendere a compromessi con i propri valori”. Ma i giorni diventano anni, ed Avner, umano troppo umano come Steve (Daniel Craig), Carl (Ciaran Hinds), Hans (Hanns Zischler) e Robert (Mathieu Kassovitz), comincia a sentirsi perplesso, confuso, disorientato, a covare paranoie, a provare rimorsi, ad avere la coscienza lacerata dai dubbi sulla legittimità dell’operazione che sta conducendo (“se quegli uomini hanno commesso dei crimini avremmo dovuto arrestarli”).
Gli atroci dubbi di Avner e dei membri della sua squadra, però, non bastano a fare di “Munich” un film imputabile di equivalenza etica, ossia di relativismo morale. La struttura stessa del film è difatti sufficiente ad invalidare le accuse. Incorniciando “Munich” tra le crude immagini dell’attacco terrorista (all’inizio le riprese d’archivio della ABC, alla fine la puntuale ricostruzione dell’esecuzione degli ostaggi), e punteggiandolo di riattualizzazioni di quel sanguinoso cinque settembre, Spielberg compie una ben precisa, per quanto involontaria, scelta di campo.
Ma neanche questo è il problema. Il problema, semmai, è altrove. Semmai, “Munich” può essere tacciato di generico umanitarismo e di inconsistenza politica, laddove riduce il conflitto israelo-palestinese alla stregua di un thriller vagamente pacifista, esattamente come trattava “Il colore viola” di Alice Walker non come un testo sul conflitto razziale ma come un romanzo alla “Oliver Twist”.
Titolo originale: “Munich”;
Regia: Steven Spielberg;
Sceneggiatura: Tony Kushner, Eric Roth;
Fotografia: Janusz Kaminski;
Scenografia: Rick Carter;
Costumi: Joanna Johnston;
Montaggio: Michael Kahn;
Produzione: Universal Pictures, DreamWorks Pictures;
Distribuzione It.: UIP;
Interpreti: Eric Bana, Daniel Craig, Ciaran Hinds, Mathieu Kassovitz, Hanns Zischler, Geoffrey Rush, Michael Lonsdale, Lynn Cohen;
Origine: Stati Uniti;
Anno: 2005;
Durata: 164’.
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