Nel 1992 la rivista inglese “Sight Sound” salutava l’arrivo di un nuovo fenomeno cinematografico appena insorgente denominandolo “New Queer Cinema”.
I pionieri di questa corrente erano Derek Jarman, Gregg Araki, Todd Haynes, Rose Troche, tutti indipendenti, tutti gay, tutti impegnati a realizzare film a basso costo stilisticamente audaci, radicali e innovativi. Poi, come spesso accade, la tendenza è diventata trendy ed è stata riassorbita dal sistema e quelli che erano film di nicchia sono divenuti nicchie di mercato. Non è il caso, allora, ma le valutazioni di mercato - oltre che l’ormai evidente appeal delle politiche identitarie - ad aver fatto sì che nel 2005 siano apparsi sul grande schermo almeno quattro film di successo a tematica omosessuale. “I segreti di Brokeback Mountain” (Ang Lee), “Breakfast on Pluto” (Neil Jordan), “Transamerica” (Duncan Tucker), “Capote” (Bennett Miller). Se è innegabile che si tratta ancora di produzioni indipendenti realizzate in notevole economia, è anche vero che stavolta sono dirette da registi eterosessuali e interpretate da attori non meno eterosessuali di loro, bendisposti però ad incarnare personaggi gay, travestiti o transessuali che ne mettano in risalto le capacità interpretative e gli lastrichino l’impervia strada verso l’Oscar. È questo il nuovo volto del “queer” cinema, allora, un volto mainstream la cui esistenza sarebbe stata inimmaginabile senza il buon vecchio “New Queer Cinema”.
Ciò premesso, passiamo a “Capote” che, a conferma di quanto sopra, è valso a Philip Seymour Hoffman (nel ruolo del grande scrittore americano) il Golden Globe come miglior attore drammatico, nonché la candidatura all’Oscar nella stessa categoria (oltre ad essere stato eletto miglior film del 2005 dall’americana “National Society of Film Critics”).
Tra il film biografico e il docudramma, “Capote” racconta la storia che sta dietro la gestazione di “A sangue freddo”, il romanzo reportage di Truman Capote, il primo “non fiction novel”, secondo la definizione che ne dava il suo autore. È la storia del viaggio che lo scrittore, sceneggiatore e giornalista del “New Yorker” intraprese nel 1959 con l’amica Nelle Lee Harper (Catherine Keener, autrice poi di “Il buio oltre la siepe”), dopo aver letto una notizia di cronaca nera riguardante il brutale assassinio della famiglia Clutter avvenuto ad Holcomb, una tranquilla cittadina del Kansas. “A sangue freddo” germinerà da questa esperienza durata sei anni, anni in cui Capote conoscerà i responsabili di quell’inspiegabile omicidio, svilupperà un rapporto simbiotico con uno di loro (Perry Smith/Clifton Collins Jr.), costruirà il suo capolavoro sulle memorie di lui e attenderà il giorno dell’esecuzione per scrivere il gran finale.
Capote e la sua smodata ambizione, il suo proverbiale narcisismo; Capote e la dipendenza d’alcool, la tendenza all’autodistruzione; Capote e la duplicità, l’opportunismo, il lento processo di corruzione interiore che lo porterà all’apice della sua gloria e sarà insieme l’inizio della sua rovina. Capote, il genio dell’artista e l’anima dell’uomo. Un piccolo uomo palesemente gay, dai modi effeminati e bislacchi e dalla voce in falsetto, che nella modaiola società letteraria newyorkese era un dandy celebre, carismatico e brillante e nel Midwest conservatore e selvaggio un reporter “moralmente indifendibile”, alle prese con i contraccolpi di un patto faustiano. Due Truman per due Americhe.
Miller, al suo primo lungometraggio di fiction, lo descrive così, cercando di cogliere la differenza che passa tra la letteratura e la vita, quando la letteratura può essere così piena di umanità da traboccarne, mentre la vita ne è totalmente priva. Quando i luoghi oscuri della coscienza finiscono per distruggere la carriera e costare la vita.
Un po’ schematico nel tratteggiare un Capote manicheisticamente diviso in due, un po’ ingenuo nel descrivere le conseguenze della sovrapposizione tra arte e vita, Miller non riesce ad evitare del tutto le trappole del film biografico della serie ascesa e caduta di un tormentato personaggio storico e non risparmia morbosità, patologie e sordidezze del caso. Tuttavia, quali che siano i buchi, i vuoti, le mancanze del film, Hoffman li riempie tutti, eclissandosi a tal punto in Truman da scomparirvi dentro.
Titolo originale: “Capote”; Regia: Bennett Miller; Sceneggiatura: Dan Futterman; Fotografia: Adam Kimmel; Scenografia: Jess Gonchor; Costumi: Kasia Walicka-Maimone; Montaggio: Christopher Tellefsen; Musica: Mychael Danna; Produzione: United Artists, Sony Pictures Classics; Distribuzione Sony Pictures.: UIP; Interpreti: Philip Seymour Hoffman, Catherine Keener. Clifton Collins Jr., Chris Cooper, Bruce Greenwood, Bob Balaban, Mark Pellegrino; Origine: Stati Uniti; Anno 2005; durata: 98’.
15 febbraio 2006