Protagonista è la Memoria, sacrosanta aspettativa tesa sul filo sghembo di frivole commozioni, ghignanti revisioni, indolori conversioni alla nobile causa di un dolore più che mai altrui.
Vittima –come da copione, tragico e puntuale- è l’umana storia. Maestra di vita in un’aula in cui gli Assenti sono la Lezione. E a scaldare banchi a ferro e fuoco stanno i ripetenti senza licenza di umanità. E c’è il colpevole: la Menzogna, sopraccoperta stesa ad asciugare lacrime su “sei milioni di lenzuoli funebri”.
Interprete di una finzione cucita con abile mano sulla realtà dell’Olocausto, come una cicatrice letteraria che dona spessore alle ferite senza contaminarle, è Peter van Pels, “Il ragazzo che amava Anne Frank” nell’alloggio segreto di Amsterdam, rinominato dall’autrice del celebre diario come Peter van Daan. Fu durante una visita alla Casa di Anne Frank nel 1994, che la giornalista del New York Times e di American Heritage Ellen Feldman adottò e adattò il misterioso destino di Peter, l’unico inquilino di cui non esistesse alcun verbale che ne raccontasse la sorte. Sebbene le successive ricerche condotte dalla scrittrice abbiano rivelato che gli storici ritengono che il giovane sia morto durante la marcia forzata da Auschwitz a Mauthausen, tre giorni prima della liberazione del campo, la Feldman ne ha immaginato, con taglio asciutto e leale, il percorso di sopravvissuto in un arco temporale che va dal 1952 al 1980. Uscito nella traduzione italiana di Elisabetta De Medio per Corbaccio il romanzo, teso e equilibrato -pur senza il retrogusto appagante di una corposa qualità letteraria - segue, con occhio cinematografico e uno zoom introspettivo che non cede all’intrigante retorica dell’orrore o a sentimentalismi - la vita nascosta e gli inevitabili indizi del neocittadino americano Peter van Pels. Imprenditore edile di successo, sposato e padre di due bambine, “pilastro” borghese di una società a stelle, strisce e alberati quartieri residenziali, Peter continua a muoversi nella vita con prudenza. Cancellato il proprio passato con acrobatico, tenace e proditorio inganno, vigile pur dentro al sogno di un’America che ha il timbro promettente e smaliziato di quel bacio con casqué tra un marinaio e un’infermiera visto e mirato su un numero sgualcito della rivista Life (“vita”, non a caso), il sopravvissuto Peter non ha casa né salvezza. L’identità negata si ricompone, infatti, nei volti dei vicini, della moglie ebrea, del socio ebreo, dell’uomo in divisa che suona ripetutamente alla porta: vittime o carnefici immaginari in quel permeabile, indimenticabile Terrore di essere braccato o di poter fare del male.
Se la parola, dunque, è complice o spia di memoria e tradizione, condannata a una sorta di ingiusta ansia da prestazione già nel luogo deputato all’accoglienza degli ebrei emigrati (“un atrio rumoroso e pericolante gremito di adulti dai quaranta ai cinquanta che non avrebbero mai imparato a parlare l’inglese perché avevano paura di quello che avrebbero potuto raccontare”), l’afonia è la più scontata – e realistica - somatizzazione per chi rifiuta l’imperativo morale della testimonianza: “al posto della memoria avevo l’istinto. Al posto del passato avevo questo inspiegabile, illecito, malato, del tutto straordinario presente”. Ma a nulla è valso perdere la voce. La sera in cui la moglie, abituata a leggere un libro prima di dormire, ha aperto tra le lenzuola fresche di bucato il diario di Anna Frank fresco di stampa. “Cercare di cancellare il passato”, infatti, è “solo un altro modo per vivere nel passato”.
E se comprensibile è l’inganno confuso e conflittuale del sopravvissuto, convinto che “l’unica possibile dignità” sia “proteggere gli altri dall’orrore”, inaccettabile è la finzione pelosa e accondiscendente, il restauro che –nel riportare il dramma alle luci della ribalta- altera il colore del sangue versato. Il chirurgo plastico che, un gradino sotto Dio sul podio dei miracoli, pretende di cancellare il passato rimuovendo in ambulatorio i numeri tatuati sul braccio dei reduci dai campi di concentramento. La coppia di turisti che fotografa la figlia mano nella mano con la statua di Anna Frank chiedendole il più largo dei sorrisi. La rappresentazione teatrale e il film basati sul Diario, successi internazionali che scendono a patti con il pubblico, costruendo inganni o caricature su alcuni dei coinquilini dell’alloggio segreto, commediando, edulcorando, perché la realtà sia di gradimento. Oltraggi alla Memoria che sono irresistibile richiamo all’Identità: “essere un mensch…un po’ più di un uomo. Una persona onesta. Leale. Affidabile”.
Ritorna la voce. Ritornano le voci. Quelle dei morti dell’alloggio segreto, di Anne che osserva con gli occhi scuri dalla copertina del Diario e domanda: “Dacci notizie, Peter. Dicci cosa succede nel mondo senza di noi”.
Silvia Giuberti
“Il ragazzo che amava Anne Frank” di Ellen Feldman
Corbaccio, pagg.255, euro 16,00