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9 marzo 2006

Morolli: ecco cosa abbiamo scoperto sotto il dipinto

di Stefano Biolchini

Nel sesto centenario dalla nascita di Leon Battista Alberti ha destato clamore l'ipotesi di attribuzione al grande architetto, letterato e matematico, de La Città Ideale, celebre e misterioso capolavoro conservato ad Urbino, in mostra a Palazzo Strozzi (L'uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le Arti a Firenze tra Ragione e Bellezza, 11 marzo/23 luglio 2006) .

Un'attribuzione che, se confermata, aprirebbe nuovi importantissimi scenari per la storia dell'arte italiana. Abbiamo chiesto a Gabriele Morolli, uno dei massimi studiosi dell'Alberti e curatore con Cristina Acidini della mostra fiorentina, di spiegarci il percorso che lo ha portato a questa ipotesi di indicazione di paternità.

«Che La Città Ideale nel suo concepimento abbia subito un forte influsso da parte del pensiero albertiano è cosa che da tempo trova l'accordo i critici. Il problema non è stato tanto quello di riconoscere "l'albertinità" degli edifici rappresentati nell'opera o l'armonia urbanistica d'insieme (che riflette posizioni estetiche già sostenute dall'Alberti una ventina di anni prima, se si accetta la datazione de La Città Ideale agli anni 1470-1480, avendo scritto l'alberti il De Re Aedificatoria attorno al 1450, ndr)».

Qual è dunque la novità?

«La vera novità è costituita dalla scoperta al di sotto della superficie pittorica del dipinto di un reticolo di segni o, meglio, di un grande disegno architettonico quattrocentesco di dimensioni e precisioni talmente eccezionali da non poter essere definito un disegno preparatorio - o una griglia geometrico-compositiva - funzionale alla stesura della superficie pittorica (come d'uso nel '400). Sotto la superficie de la Città Ideale sono centinaia e centinaia di linee che descrivono, con minuzia da disegno architettonico, le colonne, i pilastri, le arcate, le finestre, i frontoni, le mostre delle porte, le partiture degli elementi marmorei bianchi e verdi, i pozzi, le mensole dei balconi. Una descrizione particolareggiata, come se il disegno avesse una sua vita indipendente dalla trasformazione nel capolavoro de La Città ideale che tutti conosciamo».

In passato lei formulò l'ipotesi della paternità albertiana, ma poi optò per l'attribuzione al Laurana. Come è arrivato al nuovo convincimento?

«Questa scoperta risale al periodo della grande mostra di Urbino su "Piero e le corti del rinascimento" (1992) quando l'amico Maurizio Seracini, l'ingegnere specializzato in ricerca sotto le superfici dipinte, con la diagnostica non invasiva (analisi radiografica e riflettografica e a luce radente, ndr) realizzò le indagini che portarono al rinvenimento di una serie di linee. Il tessuto di linee rinvenuto dal Seracini anticipava completamente l'impaginato architettonico de La Città Ideale. A quel punto cominciammo a fare delle considerazioni distinguendo nella sostanza due mani, quella del reticolo di linee e quella del pittore (fra i pittori si parla ancora di Laurana, Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini, il giovane Sandro Botticelli, che in quegli anni frequentava Urbino). Il problema a quel punto era di spiegare come fosse possibile che un pittore spendesse mesi di lavoro per tracciare un disegno a bianco e nero, poi destinato ad essere ricoperto dalla pittura. Così nacque l'idea che l'autore delle linee guida fosse altri dal pittore.

Lei stesso aveva già identificato la presenza dell'Alberti nello studio sul passaggio dalla "Città Ideale" a quella "reale", facendo riferimento alle puntuali corrispondenze con palazzi progettati da questo autore e rappresentati nell'opera di Urbino, come Palazzo Rucellai...

«Verificando queste puntuali corrispondenze con palazzi reali come quello Rucellai, (scompartito in facciata esterna dagli ordini architettonici), e ricostituendo il contesto architettonico in cui questo disegno poteva essere nato, ci siamo resi conto che si trattava di contesto radicatissimo nella cultura albertiana. Da qui l''ipotesi che ci fosse proprio la mano dell'Alberti dietro La Città Ideale di Urbino e le due sorelle conservate a Baltimora e Berlino, che rappresentano similari vedute prospettiche urbane».

Nelle altre due opere è più facile riconoscere dei luoghi reali della Roma antica e moderna...

«In una è rappresentano il foro romano restaurato, oltre ad una sequenza di architetture moderne o grandi chiese rivestite da marmi bianchi e verdi. Anche nella Città Ideale di Berlino l'ambientazione è romana, con nello sfondo la mole di Castel Sant'angelo e il corso del Tevere».

A questo punto un'indagine simile sui due capolavori di Berlino e Baltimora potrebbe essere risolutiva?

«È la nostra scommessa del futuro. Grazie a questa mostra speriamo di venire a capo dell'indagine. Creando una sinergia internazionale si potrebbe concordare un protocollo di analisi, sulla scorta di quelle già effettuate da noi, per verificare se in quelle tavole esistono disegni similari a quelli disvelati nell'opera di Urbino».

Lei è ottimista in proposito?

«Sono convinto che dopo questo exploit la strada è "se non più breve", spianata».

Recentemente si è assistito a troppo celebrate rassegne, con opere di grandi autori esibite a mo' di specchietto per le allodole. Operazioni di puro marketing senza alcuna prospettiva critica. Al di la della scoperta su La Citta Ideale vuole spiegarci il progetto di studio alla base di questa mostra da lei curata?

«Con la soprintendente Acidini, che ha permesso la campagna di prestiti prestigiosi, abbiamo elaborato un progetto con un'anima. Abbiamo elaborato una mostra che può apparire difficile. Credo però che il nostro pubblico abbia bisogno di essere trattato da pubblico adulto e stimoltato, non blandito con l'evidenza, l'ovvio e la ripetizione di poche nozioni. Abbiamo l'ambizione di presentare un percorso, anche arduo, il cui premio non è cosa da poco: entrare nella mente armoniosa e fortemente architettonica di Alberti. E questo non attraverso il tecnicismo di piante, prospetti e sezioni per addetti ai lavori, bensì accostando il visitatore alla visione estetica a tutto tondo dell'Alberti. Abbiamo portato in mostra i frutti artistici di tutti i suoi illustri compagni di tempo, da Donatello, a Luca della Robbia, a Ghiberti, Filippo lippi, Angelico. Tutti artisti che avevano ascoltato e letto trattati dell'Alberti e la cui arte si è certamente modificata. Il Rinascimento stesso ha subito con l'Alberti una evoluzione in senso di ricchezza, fasto e cultura filologica dell'antichità . Abbiamo portato in mostra opere che registrano l'influenza dell'Alberti e cerchiamo di far comprendere qual'è il valore aggiunto, il portato della visione estetica albertiana in questi capolavori».

Da qui il titolo impegnativo: L'Uomo del Rinascimento. Leon battista Alberti a Firenze tra ragione e bellezza?

«Un titolo lungo per giocare a carte scoperte con il visitatore. L'uomo del Rinascimento non è soltanto l'Alberti, come non è soltanto Leonardo o il divino Michelangelo. L'uomo del Rinascimento è un progetto che gli uomini del '400 hanno elaborato. In questo senso l'Alberti è colui che forse per primo incarna questa totalità di interessi e di capacità di contemperare la ricerca della bellezza con il rigore intellettuale. Ma non è naturalmente l'unico».

Quale consiglio darebbe ai visitatori?

«Nella mostra di Palazzo Strozzi si chiudono e aprono cerchi che dalla mente degli artisti possono rimbalzare alla nostra mente e al nostro cuore. Il percorso espositivo contiene installazioni tecnologiche, proiezioni su schermi delle opere fiorentine dell'Alberti (la facciata di Palazzo Rucellai, quella di Santa Maria Novella, il Tempietto nella Cappella dei Rucellai in San Pancrazio, il grande Tondo cupolato della Basilica della Santissima Annunziata, ndr). Si tratta di ricostruzioni al computer per invitare i visitatori ad andare in città e ritrovare nelle nelle opere di Alberti i valori proporzionali, le armonie prospettiche e i segreti che osservando una facciata dalla strada è assai arduo cogliere»



 

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