Se ti capita di nascere nel Luogo Sbagliato.
In un lancio –maldestro e sinistro- di geografia e di caso. Un incantesimo già bacchettato dal dolore di un mondo ostetrico che “sta davanti” –ligio all’etimologia- ma non ti accoglie. E ti battezza in cronaca nero pece. Se ti capita una vita in attesa. Un resti-in-linea che divora i gettoni del futuro. Un punto e a capo che finisce per rimbalzare entro la parentesi beffarda di una reception senza ascensori verso i sogni. Allora è un vero problemsky, un “ Problemsky hotel”. Nome fittizio per un centro di permanenza temporanea per pellegrini dall’orrore – zaino zeppo di crudeltà, zuppo di sangue- alla ricerca di una scansione temporale longeva ed appagante in cui alloggiare. Un “Lovely planet” di illusoria accoglienza, meticolosamente descritto e edulcorato dal personaggio Pius -perseguitato politico in odore di follia- in una guida turistica in formato tascabile che, tra escursioni ai gabinetti o ai terminal container, segnalazioni da una a cinque stelle del firmamento di misere attrazioni, consigli utili per la clandestinità, numeri di telefono di mafiosi e sfruttatori contattabili con cellulari paradossalmente a portata di ogni tasca vuota, indicazioni per l’alloggio dell’impudica Anna per legittimate incursioni sessuali, restituisce al senso originale di “vuoto” l’invenzione –riveduta e corretta in triplice edizione- di una “vacanza” per rifugiati in attesa di permesso di soggiorno.
E proprio dall’ingenuità a tavolino del –sarcastico?- Pius prende il titolo il reportage in forma romanzata -dépliant per sommarie esecuzioni di destini- con cui il giornalista, poeta e narratore belga Dimitri Verhulst ha inchiodato al legno ruvido della realtà le illusioni tradotte in eufemismo del centro di permanenza temporanea della cittadina di Arendonk. Nel freddissimo dicembre del 2001, complice la committenza della rivista “Deus Ex Machina” per un articolo sui rifugiati, Verhulst ha soggiornato per un breve periodo tra i disperati corridori di una vita ai blocchi di partenza. Uomini e donne senza terra, morti a decine in mare. Nella prevedibile agonia dei container, gelidi o soffocanti traghettatori tra due sponde di un ostinato inferno. Rifugiati, ritornati, rimpatriati senza risposta. Colpevoli di nascita. In un Luogo Sbagliato dove si squartano congiunti davanti ad occhi ancora umani, gettandone le interiora ai cani; dove le mine collezionano nelle teche di terra esplosa sezioni di sorrisi e di corse di bambini; e le donne, dalle storie concluse in secolari rime di ottusa misogenia, fuggono insieme ai mariti per poterli abbandonare. Pane e pena quotidiani per cronache e servizi giornalistici che spesso confezionano parole sotto vuoto, senza intossicarci di Comprensione e Sdegno.
Verhulst ha, al contrario, intuito e imboccato il percorso contagioso di un “romanzo spudoratamente politically incorrect”. Suscitando un inevitabile rigurgito di verace solidarietà con efficaci dosi di smisurata realtà e l’insostenibile solletico di un’amarissima ironia.
Voce narrante e graffiante –nel suo “presente perfetto” che teme anche la svolta burocratica della morte: “Tremo al pensiero di ritrovarmi, con mia grande sorpresa, in un aldilà dove prima bisogna fare domanda d’asilo.(…) Quanti moduli dovrò riempire, quanti timbri dovrò ottenere e quante commissioni dovranno rovesciare il caffè sulla mia pratica, prima che mi assegnino una cameretta minuscola, che poi dovrò dividere con un angelo che parla esclusivamente in russo?”- è Bipul Masli, fotoreporter fuggito dall’immaginaria terra di “Malutopia”. Convinto che la gloria, nell’arte fotografica, sia una questione di fortuna. E che la fortuna sia “a lungo andare una questione di abilità”. Anche quando nemmeno una dannata mosca arriva a posarsi –prova volante della “fotogenicità” del mondo- sul volto di un bambino denutrito, colto nell’atto di morire con la richiesta “di essere spontaneo”.
Tra rissosi immigrati ceceni e neri che non sanno fare le curve in bicicletta, tra fanciulle minorenni che si infilano in un letto altrui con biancheria a stelle e lune e giganti russi che della lingua francese non hanno ancora –e profeticamente- imparato il futuro prossimo, la permanenza temporanea fa della masticazione lenta di frugali pasti e delle dispute sulla qualità dei rasoi –sinché morte suicida non decreti l’affilata soluzione- una questione di sopravvivenza. Scorretta e irregolare come la penna a inchiostro ferocemente simpatico di Verhulst che, già tradotto con successo e “putiferio” in Inghilterra, Francia, Germania, Danimarca e Israele, distilla al veleno i “sette salmi della Convenzione di Ginevra”. Uno per tutti: “Non commetterai il peccato di voler migliorare la tua esistenza”.
Silvia Giuberti
“Problemsky hotel” di Dimitri Verhulst
Fazi Editore collana Le strade
pagg. 121, euro 13.50
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