A leggerne la trama, in epoca di lavoro precario, suona quasi una provocazione: dodici storie che descrivono l’annichilimento e l’inquietudine degli impiegati a tempo indeterminato all’interno di grandi e anonime aziende.
Federico Platania, romano, classe 1971, ha scelto questo tema “fuorimoda” e controcorrente per il suo libro d’esordio, “Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato”, pubblicato dalla casa editrice Fernandel. “Intanto perché questa è la realtà che io conosco – spiega l’autore, da dieci anni assunto a sua volta in una grande azienda italiana -. E poi perché la sacrosanta critica alle nuove forme di lavoro precario rischia di far dimenticare le condizioni di disagio, difficoltà e appiattimento che spesso caratterizzano gli ambienti di lavoro, a prescindere dalla formula del contratto”.
Con l’aggravante, per chi ha un posto fisso, di un senso di claustrofobia che nel libro di Platania sembra fare da filo conduttore alle dodici storie, che insieme formano un “testo narrativo unico”, come dice lui stesso: non un romanzo, ma nemmeno una semplice raccolta di racconti. La struttura si articola in più parti: tre episodi dscrivono un primo giorno di lavoro, altri sei la vita all’interno dell’azienda e infine altre tre la variante di un ultimo giorno. La sensazione di unità e continuità è suggerita dalla ricorrenza di alcuni elementi descrittivi, di frasi e situazioni che proprio per la loro ripetitività e similitudine finiscono per rendere ancora più sinistra la già inquietante atmosfera dominante.
Macchine che non funzionano, ambienti grigi, squallidi e soffocanti, lunghi corridoi e palazzi anonimi a più piani, rumori metallici, espressioni banali e vuote fanno da cornice alle storie, tutte raccontate in prima persona attraverso uno stile asciutto e rapido che aggiunge sapore realistico al testo.
Il leitmotiv è questo meccanismo psicologico di inquietudine e claustrofobia accentuato dal finale sospeso o tragico delle vicende e da elementi tipici del genere horror, come dice lo stesso Platania: “Non ho seguito un particolare modello letterario di riferimento, anche se alcuni elementi surreali possono richiamare alcune atmosfere kafkiane, soprattutto nella descrizione di grandi organismi lavorativi che finiscono per funzionare a prescindere da chi vi abita o lavora e che sfuggono alla nostra comprensione, un po’ come accade nel Castello o nel Processo”.
“Non sono racconti surreali – spiega ancora Platania, grande appassionato di Samuel Beckett – piuttosto si tratta di storie al limite del reale, ma comunque verosimili, qualcuno ha parlato di realismo caricaturale e mi sembra una definizione azzeccata”.
Il senso di soffocamento e angoscia prende la forma di piccoli particolari che diventano dominanti o che ritornano in diversi racconti: la polvere, la sporcizia, gli uffici seminterrati, gli ascensori, la mensa affollata e squallida, la luce fioca del sole o quella fredda di neon malfunzionanti, ma anche animali e insetti che interferiscono con le attività degli impiegati: piccioni, topi e quaglie morti, cimici e tarme. E ancora, sagome nere che si muovono furtive, luccichii e suoni sinistri, finestre aperte e dialoghi assurdi pur nel loro realismo.
Per non dimenticare, insomma, che anche l’ormai mitico “posto fisso” è tutt’altro che la soluzione a tutti i mali agognata come un eden da chi vive situazioni di precarietà lavorativa.
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Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato”, di Federico Platania, editore Fernandel, 160 pagg., 13 euro.
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