Nella vita degli americani non c’è un secondo atto.
Così diceva Francis Scott Fitzgerald. E infatti, per lui, morto 44enne, non ci fu mai. Jay McInerney, invece, ammiratore dichiarato dell’autore del Grande Gatsby, non può permettersi, per sua fortuna, di pensarla allo stesso modo. E’ un delle argomentazioni che lo scrittore newyorkese utilizza, non senza ironia, per spiegare la differenza di prospettiva nel suo ultimo romanzo, Good life, rispetto a molti dei suoi lavori precedenti.
Il ragazzo che aveva scritto, nel 1984, Bright lights, big city (Le mille luci di New York), raccontando il mondo degli yuppies, narrando di modelle, sfilate e cocaina , ora ha compiuto cinquantun anni. E allora il mondo che descrive è diverso. O forse no. E, forse, anche i personaggi assomigliano ai suoi protagonisti di sempre, solo con vent’anni di più sulle spalle.
A rendere davvero differente questo libro sono i giorni nei quali si svolgono le vicende narrate. Il romanzo si apre poco tempo prima dell’11 settembre e si conclude qualche mese dopo.
McInerney è un newyorkese, non di nascita d’accordo, ma, ormai, è quasi un simbolo della città. Il suo amore per la Grande Mela è noto. Di più, quando le torri sono cadute, per tre mesi, ha lavorato come volontario nelle cucine da campo dove si preparava il cibo per agenti, pompieri e per chiunque stesse scavando tra le macerie.
E allora, viene da pensare, nessuno meglio di lui poteva scrivere un romanzo ambientato nei giorni del disastro. Ma Good life è davvero un libro sull’11 settembre? La risposta è no. L’ultima fatica di McInerney è, più che altro, una storia d’amore.
L’intreccio è semplice. Due coppie in crisi i cui destini si intrecciano. Corinne e Russell Calloway, già protagonisti di un romanzo precedente, Brightness falls (Si spengono le luci) e Luke e Sasha McGavock. Dopo il disastro dell’11 settembre Corinne, frustrata, avvinta dai sensi di colpa e stanca dell’indifferenza del marito, incontra Luke, sposato con una donna dedita solo alla vita mondana, ai vestiti firmati e alle feste, che ha ridotto la sua esistenza a farsa. Tra i due è amore a prima vista. Letteralmente. Infatti il 12 settembre, Corinne si trova l’uomo davanti, coperto dalle ceneri delle torri. A Luke, dopo che ha passato un giorno a scavare tra le macerie, appare come una visione. “ Ero così fuori di testa- le dirà poi- che quando ti vidi pensai per un secondo che forse ero morto anch’io laggiù, e che tu eri un angelo…”
Proprio qui sta il nodo del romanzo. La storia d’amore in se’ potrebbe essere quasi banale, dominata da parecchi cliché, salvata solo dall’elegante prosa di McInerney. In realtà, anche un libro sull’11 settembre, difficilmente sarebbe stato originale e scevro dalla retorica. La bellezza di Good Life sta in questo equilibrio. Dopo il disastro, superato il primo momento di lancinante dolore, si ha la sensazione che tutto possa cambiare.
I protagonisti mettono in discussione le loro esistenze. E sognano di sfuggire ad una vita fatta di apparenze, convenzioni, menzogne. Come se il crollo delle torri potesse offrire a tutti, alla città stessa, l’occasione per ripensare ad ogni cosa e per ricominciare in modo diverso.
La caduta delle Twin Towers sta sullo sfondo. Jay McInerney non ne parla mai direttamente, non la racconta mentre accade,non ne fa un’analisi dopo. Eppure è sempre presente. Luke e Corrine si conoscono nella cucina del Bowling Green. Intorno gira tutto un mondo di genti di polizia, di volontari, di newyorkesi che sembrano riscoprire valori dimenticati.
Ed è così che la tragedia, proprio perché relegata sullo sfondo, produce un sorta di rumore, sordo ma continuo, e acquista una dimensione inquietante. La scelta dell’autore è perfetta, non scivola mai nella retorica, nel facile patriottismo, non si occupa di politica. Racconta la ferita della città attraverso le ferite dei protagonisti. In questo modo, l’11 settembre, evocato dai rari racconti dei personaggi, dalle immagini su di un orizzonte fumoso, dalle paure dei bambini, ma mai raccontato, mai spiegato, mai al centro della narrazione, assume una drammaticità enorme.
Il resto lo fa il talento di uno scrittore eccezionale, con uno stile elegante e un grande senso del ritmo. Capace di descrivere con delicatezza il bisogno di sentirsi gli uni vicini agli altri dopo l’attacco, ma anche le difficoltà di comunicare nella vita di tutti i giorni tra le mura di casa. Come nel narrare le difficoltà di Corinne nel riavvicinarsi a Russell, all’inizio della vicenda. “ Giacendo a mezzo metro da suo marito, e desiderandolo come una volta- scrive McInerney, si era sentita timida come una vergine. Il lenzuolo bianco fra loro era come una pagina bianca, e lei non poteva trovare le parole per riempirla” .
Successore di Fitzgerald e di Raymond Carver, McInerney è stato accusato dalla critica di avere perso, in questo romanzo, la cifra della satira. Non è così. Ha in parte sacrificato un pungente sarcasmo per andare alla ricerca, tra stupore e umorismo, dell’umanità nascosta in fondo ai cuori degli uomini e delle donne, perduti nell’apocalisse di New York.
Jay McInerney
Good Life
Bompiani
427 pagine, 18 euro