Nato in Afghanistan 51 anni fa, figlio di un diplomatico e di un’insegnante, Khaled Hosseini ha vissuto con la sua famiglia gli ultimi decenni della storia afgana, dove la polvere si mischia col sangue di due generazioni di adulti e di bambini, per i quali “avere un padre e un fratello maggiore è un lusso concesso a pochi fortunati”.
Una storia fatta anche di fughe dall’orrore e dai nemici (quelli interni, dopo la caduta del re, quelli esterni, i sovietici, e ancora quelli interni col volto fanatico dei talebani): andata e ritorno da Parigi a Kabul, viaggio di sola andata da Kabul per gli Usa, dove Hosseini studia e diventa medico.
Difficile non pensare a questo suo romanzo (“Il cacciatore di aquiloni”, edito da Piemme) come a un’opera per alcuni versi “autobiografica”, fatta com’è di intreccio sensibile di fatti che appartengono a un intero popolo, ma soprattutto di emozioni realmente vissute: dalla felicità dell’infanzia, quando gli aquiloni, metafora della libertà (e sport nazionale afgano), volavano a migliaia nel cielo di Kabul, all’adolescenza vissuta da profugo, alla maturità segnata dall’immagine angosciante di un paese distrutto. Storie di amicizia tra singoli (il rapporto tra i bambini Amir, protagonista e io narrante, e Hassan, formidabile cacciatore di aquiloni) e di famiglie che si disintegrano sotto le bordate della storia, ma anche per la tragica debolezza di un momento (il tradimento di Amir nei confronti di Hassan) che in altri contesti avrebbe certo risvolti meno drammatici. Perché quello è il paese delle vite spezzate e dell’infanzia rubata, delle mine che sollevano i bambini in aria in un assurdo gioco di morte, di un dolore collettivo indicibile di cui ancora oggi non si vede la fine. Il racconto della memoria si intreccia con quello del travaglio della coscienza di un anti-eroe, di un uomo “senza qualità”, Amir, che costretto dalle necessità (andare alla ricerca di Sohrab, il figlio orfano di Hassan, che porterà con sé negli Usa) va a fare i conti con il passato in un viaggio a ritroso nella martoriata Kabul. Lo sgomento (la vergogna?) di Amir per il suo tradimento e la sua ansia di colmare una vita piena di assenze, lo portano a un riscatto sorprendente e inatteso, a regolare una volta per tutte con il passato i conti che intuiva solo rinviati nel tempo. Basta leggere il toccante incipit, datato dicembre 2001:”Sono diventato la persona che sono all’età di dodici anni, in una gelida giornata invernale del 1975. Ricordo il momento preciso: ero accosciato dietro un muro di argilla mezzo diroccato e sbirciavo di nascosto nel vicolo lungo il torrente ghiacciato. È stato tanto tempo fa. Oggi me ne rendo conto. Non è vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente. Sono ventisei anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto”. La tragedia dell’Afghanistan l’accompagna in ogni pagina, materializzandosi in voci stridenti e feroci apparizioni. La scrittura di Hosseini è al tempo stesso veloce (la storia corre…) e riflessiva, il ricordo e il dolore sono descritti con dovizia di particolari, in un’azione di impegno civile che costringe il lettore a non dimenticare la folla di disperati di Kabul, le donne invisibili e il silenzio carico d’angoscia, i relitti umani e gli sguardi perduti. Una città in cui persino il cielo ha cambiato colore e gli aquiloni non volano più. La speranza, pur fievole, è racchiusa nell’immagine finale: la comunità afgana di Freemont, California, festeggia nel cielo primaverile l’anno nuovo della tradizione, librando nell’aria una moltitudine di aquiloni colorati. Amir ne fa volteggiare uno, correndo all’impazzata e sorridendo a Sohrab, nei cui occhi, fino ad allora tristi e assenti, si accende finalmente una scintilla.
Khaled Hossein, Il cacciatore di aquiloni, edito da Piemme.