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3 novembre 2006

L’apprendistato letterario di Mordecai Richler

DI Francesco Prisco

“L’apprendistato di Duddy Kravitz” sta a Mordecai Richler come “Il circolo Pickwick sta a Charles Dickens, come l’album “Freewheelin’” sta a Bob Dylan e, ancora, come il film “Prendi i soldi e scappa” sta a Woody Allen.

Per lo scrittore ebreo canadese questo acidissimo romanzo di formazione, apparso in patria nel 1959 quando l’autore aveva appena 28 anni, fu il primo successo commerciale, il primo caso critico, la prima “pietra dello scandalo” perfidamente posta sul sentiero scosceso della cultura anglo-americana del Ventesimo secolo. Nessuno in America settentrionale, fino all’apparizione di “Duddy Kravitz”, conosceva il nome di Richler, nonostante avesse già pubblicato un paio di romanzi. Nessuno, dopo la clamorosa uscita editoriale, poté permettersi di ignorarlo.
Perché, allora, qui in Italia abbiamo dovuto attendere ben 47 anni per vedere stampato “L’apprendistato di Duddy Kravitz”? L’interrogativo è d’obbligo già alla lettura delle prime venti pagine. Richler è esploso nel Bel paese sei anni fa con la pubblicazione de “La versione di Barney” (uscito in Canada nel ’97), best seller da oltre 100mila copie che sorprese tutti. Da quel preciso momento Adelphi ha preso ad andare a ritroso nella produzione letteraria del romanziere scomparso nel 2001, pubblicando quel capolavoro che è “Solomon Gursky è stato qui”, due saggi non particolarmente brillanti (“Il mio biliardo” e “Quest’anno a Gerusalemme”) e la trilogia eroicomica per ragazzi di “Jacob Due-Due”. Soltanto da pochi giorni, insomma, è disponibile nelle nostre librerie l’opera che ha dato la scossa alla carriera di Richler. Meglio tardi che mai. Eppure c’è di che mangiarsi le mani. E’ incredibile che a nessun editore di casa nostra sia saltato in mente, in tutti questi anni, di far tradurre le avventure di Duddy Kravitz, giovane ebreo yiddish di Montreal (come l’autore, del resto), politicamente scorretto per definizione che nella vita ha un solo obiettivo: acquistare tutta la terra che circonda il lago di St. Agathe des Monts per farvi un campeggio con annesso parco giochi. Questo in nome del detto di suo nonno Simcha, secondo il quale «un uomo senza terra non è nessuno». Per raggiungere il suo obiettivo, Duddy le prova tutte: lavora come taxista part-time con l’auto del padre, produce film per le cerimonie religiose del suo quartiere, fa il corriere dell’eroina sulla rotta New York-Montreal, contrabbanda flipper provenienti da oltre confine (!), fa da sensale nel business della rottamazione dei veicoli industriali in disuso, compra, vende, ricetta e ricatta. In ogni circostanza, in nome di quello stesso obiettivo, è pronto a passare come un bulldozer sulle leggi del suo Stato, sulle convenzioni sociali del suo mondo e persino sugli affetti più cari. Non a caso, alla sua uscita in Canada, “The apprenticeship of Duddy Kravitz” suscitò le ire della locale comunità ebraica che fece presto a vedere in Richler il prototipo dell’ebreo antisemita, pronto a disegnare la sua gente come un popolo di affaristi senza scrupoli. “Duddy Kravitz” non è certo un libro per educande. I personaggi ebrei (dal vile Lennie, fratello del protagonista, allo pseudo-socialista zio Benjy fino al gangster Jerry Dingleman, il leggendario “Boy Wonder”) ma anche quelli “gentili” (Linda, perfida “figlia di papà”, e il mediocre imprenditore Hugh Thomas Calder su tutti) sembrano usciti da uno sconfinato bestiario che non fa distinzioni razziali. Nessuno si salva davanti allo sguardo pessimistico di Richler.
Fin troppo facile cedere al gioco del paragone con “La versione di Barney”, il cui protagonista ricalcherebbe in vecchiaia la fisionomia di Duddy Kravitz. C’è di vero che tanto Barney, quanto Duddy, quanto addirittura alcuni tratti del ben più complesso e consapevole miliardario Solomon Gursky sono figli di vizi e virtù della stessa piccola borghesia ebraica che nel dopoguerra affollava il quartiere St. Urbain di Montreal. Per il resto, ciascun personaggio di Richler conserva una sua caratteristica particolarità che lo rende efficace.
Dal punto di vista stilistico, “L’apprendistato di Duddy Kravitz” rispetto alle opere più mature dello scrittore canadese possiede un vantaggio: ci sono meno virtuosismi narrativi, quindi c’è più linearità per una maggiore facilità di lettura. La prosa, in terza persona, segue la crescita del protagonista dai 15 ai 19 anni d’età. Qualche colpo di teatro (la morte della moglie di Mr MacPherson che anticipa l’incidente a Virgil o i fori sulla neve a testimoniare il passaggio del Boy Wonder con le sue stampelle, per esempio) risulta addirittura ingenuo, ma comunque perdonabile ad uno scrittore che al tempo aveva meno di 30 anni.
Quando Richler nel 2000 apparve per la prima volta al pubblico italiano, la critica lo salutò come una sorta di epigono dei “dioscuri” della cultura ebraica d’America Saul Bellow e Philip Roth, già vincitori rispettivamente di un Nobel e di un Pulitzer. “L’apprendistato di Duddy Kravitz” dovrebbe chiarire una volta per tutte che Richler non è epigono di nessuno. Semmai può essere un degno contemporaneo dei vari Bellow e Roth. Ai premi letterari, poi, preferiva quattro dita di Macallan e una boccata di Montecristo.

Mordecai Richler
“L’apprendistato di Duddy Kravitz”
Adelphi
pp. 350
Euro 19,50



 

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