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16 novembre 2006

L'assenza presente del misterioso Giovanni Martini

di Silvia Giuberti



Duro a morire, il Mistero, nel mondo degli scrittori esordienti. Che se non tingono di fosco giallo o noir sanguigno -con pruriginose campiture rosso hard- le scolorite trame di frettolose ambizioni, fanno Mistero di se stessi. In una sorta di letteraria agorafobia dickensoniana, Giovanni Martini, esordiente per Fazi, pubblica in “riserbo assoluto” –inutile? intrigante? austero e snob pur nei malcelati risvolti commerciali?- “sulla sua identità. Comunica con la Fazi Editore solo via posta elettronica. Nessuno conosce il suono della sua voce, né che faccia abbia”. Titolo del libro –autoironico, se non fosse per il significato aggiuntivo e profondo degli otto racconti- è “La nostra presenza”. Che le opere parlino per noi, dunque. Salvo mandare avanti, quale portavoce d’eccellenza, un Sandro Veronesi - non nuovo a stimolanti e lusinghiere quarte di copertina- che coniuga l’elogio delle virtù letterarie del Martini allo stigma delle italiche pecche: “ Se si fosse in America, ci scommetto, se ne parlerebbe già come di un maestro, e si citerebbe Salinger: siamo in Italia, ed è solo un esordiente”.
Se il libro è anche oggetto materiale, il packaging per i contenuti di Martini sigilla su ogni lato senza approssimazione. Seduce, commuove –nella inquisitoria innocenza di un invito o di un’attesa- lo sguardo, asciutto e ipnotico, di un bambino d’altri tempi in copertina. Contratto in una sorta di enigmatica complessità. Un piccolo vecchio volto su cui incombe pertinente – la “loro” presenza- il ritratto in ovale di antenati o genitori la cui dolcezza apparente suggerisce, in realtà, l’insostenibile peso di Intrecci e Relazioni.
Suggestivo nastro della confezione è il risvolto di copertina, che paragona la scrittura di Martini all’esercizio di Qigong praticato dai monaci tibetani, “quello con cui tramite piccole, alternate e ritmiche pressioni del piede sul terreno, ci si allena a centrarsi e radicarsi –condizione necessaria per potersi elevare”.
Sbucciato, dunque, il libro gli otto racconti, che hanno avuto una gestazione di venti anni, si aprono come spicchi di tagliente realtà. Corposi, compatti, aciduli. Al gusto estremo –ma familiare- di ordinaria solitudine e viltà. Brevi, dettagliatissime -in parole, ritratti, gesti, ore, clima, comparse e suppellettili- sequenze di vita, che gonfiano con fiato sottile, pulito e perfettamente controllato una promessa di trama o di risoluzione. Per disattenderla, poi, in un conclusivo atto-inatteso. Un fermo immagine dinamico e svicolante su nuovi percorsi e prospettive che non appartengono più al lettore. Otto racconti come brevi incontri casuali: si spia, si origlia –parole e parolacce-, si suppone un prologo e un epilogo che in realtà –pare suggerire l’autore- non sono affare nostro.
Presenza, dunque: accessoria, nervosa, cinica, vile, dimezzata, subdola, ribelle. Debolmente ma consapevolmente vera. Inconcludente e senza pace. Toccata o tentata dalla morte, ma vigliaccamente vitale: “Quando verrà il riposo per coloro che sono morti, e quando verrà il nuovo mondo?” chiedono i discepoli nel brano del Vangelo apocrifo di Tommaso posto a epigrafe del libro. “Ed Egli disse loro: ciò che voi attendete è già venuto, ma voi non lo riconoscete”.
Si riconosce, forse, l’autore –in un sospetto di autobiografica referenzialità- negli omonimi protagonisti dei due racconti che aprono e chiudono il libro. Giò lo scrittore “molto spaccato” e a “metà in tutto”, che “scrive senza sapere cosa scrive”, ma pretende di essere compreso dalla sensuale Sonia, in altra vita avvinghiata. E Giò calciatore in erba, che, in nove capitoletti di adolescenza e dribbling, cerca sognante il goal oltre le difese dell’ambita Annarita.
Un affascinante consolatore dal cuore infranto, un ferragostano aspirante suicida per amore, un mistico cocco di mamma miracolante senza convinzione, un magniloquente scrittore di lettera, un nipote che svende quadri e attrezzi del nonno pittore appena morto e un giovane in via di guarigione accudito da un’ammorbante madre siglano in parole e bieche azioni un promettente patto con la “short story”. Un’arte “che in Italia è inspiegabilmente svilita, ma che ha prodotto e continua a produrre altissima letteratura in ogni lingua del mondo”.
E’ vero, Veronesi: Martini è bravo scrittore, degno di pubblicare senza riserbo anche la propria misteriosa identità. Di fatto esordiente, non ancora maestro. “Fondato, centrato e capace di elevarsi in poche pagine” nel benvenuto equilibrio di una scrittura senza caducità e di frasi che “sembrano premere sul terreno” della classicità. Scivola, tuttavia, sui contenuti. Strizzando l’occhio a un’elusiva contemporaneità che non sa Narrare.

La nostra presenza” di Giovanni Martini
Fazi Editore
pagg. 109 euro 12,00
www.fazieditore.it



 

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