Se l'aggettivo "inattuale" - tanto caro agli studiosi di Schopenauer, Kierkegaard e Nietzsche - ha ancora un senso per la filosofia contemporanea, allora è il caso di spenderlo per il siciliano Manlio Sgalambro. Da un lato l'attitudine a remare controcorrente con una specie di ghigno beffardo stampato sul viso, dall'altro il riferimento costante alle esperienze dei tre pensatori che, sempre controcorrente, guadarono la palude idealista dell'Ottocento fanno del filosofo ottantatreenne di Lentini il campione di un'inattualità sui generis che sarebbe quasi il caso di definire "pop".
"La conoscenza del peggio", saggio appena edito da Adelphi, ne costituisce una prova: in 171 pagine Sgalambro getta in pasto ai lettori la sua idea di pessimismo, tra citazioni dei classici, paradossi logici e motti di spirito. Non usa una lingua per iniziati – cosa rara per un filosofo contemporaneo – pur senza diventare banalmente divulgativo, intriga con periodi che a volte hanno la tensione dei versi e sa essere caustico, quando è necessario fino al cinismo. Nessuno (in Italia almeno) scrive filosofia in questo modo.
Non si può dire che il suo progetto non sia ambizioso. Gran parte della riflessione filosofica degli ultimi due secoli si definisce pessimista, tuttavia affonda più o meno erroneamente i piedi nella "sofferenza", piuttosto che nella "conoscenza del peggio", quel pessimum che dovrebbe essere l'unico metro del filosofo autenticamente pessimista. Eppure Platone, in un passo del "Fedone", appariva inequivocabile: «All'uomo non conviene considerare, riguardo a sé stesso e riguardo alle cose, se non ciò che è l'ottimo e l'eccellente; inevitabilmente dovrebbe conoscere anche il peggio, giacché la conoscenza del meglio e del peggio è la medesima». E' dopo l'esperienza del "dolore", non della "sofferenza", che ci si può dire pessimisti. Sgalambro costruisce così un personalissimo "metodo pessimistico", scrivendo per rapidi guizzi e aforismi irriverenti. Il pessimista non ha verità? «Chi è senza verità se la ride (…). Il fine sarebbe: fare ridere tutti, tutto il giorno». Vivere significa separarsi quotidianamente da ciò che ci sta intorno? Ebbene «la gioia del pessimista si sprigiona» proprio «dalla separazione». La morte è un salto ne buio? «Si conoscerebbe tutto sulla morte solo conoscendo la vita. Ma la morte viene sempre dal di fuori. Solo così renderemmo giustizia al morto, morendo a nostra volta».
Per ogni cosa di questo mondo c'è un cura, primitiva quanto efficace: la musica. «Musica per nervi: questa è la musica che amiamo». Quella che «perde i suoi pesi e si alleggerisce. Diventa leggera per disperazione». L'assunto, per vie diverse, era caro anche allo stesso Schopenauer d'altra parte. Ma nella riflessione di Sgalambro, dal '95 autore dei testi di Franco Battiato (il primo album realizzato insieme al cantautore fu "L'ombrello e la macchina da cucire"), è un punto fondamentale. Ecco allora apparire sulla scena un pantheon di divinità rock, come «Hendrix il pazzo» che «insegnava morale dal palcoscenico», o Morrison che cantò «i più schifosi rapporti familiari». C'è un'ode alle discoteche, «piccoli nirvana dove il solenne fragore del rock fa assaporare il piccolo nulla al figlio di Siddartha». In effetti «nel momento in cui volano i piedi e il corpo schizza da tutte le parti viene l'Uno. I giovani teppisti sono i nuovi neoplatonici». Nessun filosofo contemporaneo azzarderebbe accostamenti del genere. Ma Sgalambro, anche con il pessimismo, è un inattuale. La sua è inattualità "pop".
Manlio Sgalambro
"La conoscenza del peggio"
Adelphi
Euro 10,00
pp. 171