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Rorty, la società libera come fine

di Armando Massarenti

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12 giugno 2007


Se per "filosofia analitica" si intende non l'adesione a una particolare tesi filosofica (sulla verità, la morale o la conoscenza) ma la condivisione di uno stile, si può dire che Richard Rorty vi sia rimasto fedele per tutta la vita. Poco importa se, a partire dalla pubblicazione, alla fine degli anni 70, di La filosofia e lo specchio della natura, ne è diventato uno dei più convinti detrattori, ispirando, tra l'altro, in Italia, il cosiddetto "pensiero debole". La straordinaria chiarezza del suo pensiero (oltre che la perdurante influenza del suo maestro, Donald Davidson) sono il segno indelebile che quella scuola gli aveva impresso.

Nato a New York nel 1931 e morto venerdì scorso a Palo Alto, Rorty aveva pubblicato in quel contesto, nel 1967, i tre lucidissimi saggi di La svolta linguistica, nei quali già si trovano i presupposti della sua successiva fase "relativista", "ironica" ed "edificante". Già allora dichiarava che il compito della filosofia del futuro non doveva essere quello di «argomentare», come fanno gli «epistemologi », ma di proporre discorsi che rifuggissero dalla presunzione di fornire un'adeguata rappresentazione della realtà.

La filosofia deve «mirare a proporre modi migliori di parlare» piuttosto che «scoprire specifiche verità filosofiche », scriveva identificando questa idea programmatica come «l'erede diretta della tradizione del Linguaggio Ideale nella filosofia linguistica».
Una tradizione che egli avrebbe poi arricchito trovando linee comuni nel pensiero del secondo Wittgenstein e in filosofi continentali come Hegel, Heidegger, Gadamer, Derrida. Rorty ha così delineato un'affascinante sintesi filosofica, ricca di venature politiche e letterarie, presentata come una moderna riproposizione del pragmatismo americano in volumi come La filosofia dopo la filosofia, Conseguenze del pragmatismo, due volumi di Scritti filosofici,gli Scritti sull'educazione, Una sinistra per il prossimo secolo e Verità e progresso.

William James e, soprattutto, John Dewey, che assume un particolare significato politico in quanto eroe del New Deal, sono i protagonisti di questa svolta filosofica. Il gioco democratico e liberale, sostiene Rorty, deve insistere sui valori del dialogo e della solidarietà, e non sulle pretese di verità tipiche dei totalitarismi. La verità non riguarda una natura o un mondo che stanno là fuori, indipendentemente da noi, come avveniva nella visione metafisica tradizionale.

La differenza tra vero e falso non esiste al di fuori delle pratiche sociali che producono determinati valori, attraverso i quali una serie di asserzioni, informazioni, risultati, notizie passano per vere entrando nel ragionamento pratico degli stessi individui, costantemente impegnati in una conversazione democratica di stampo deweyano. La democrazia e la libertà di pensiero, d'altro canto, sostiene Rorty, non hanno bisogno di essere giustificate da una qualche argomentazione filosofica. Bastano a se stesse. Un sistema politico, come quello americano, sia pure lungi dall'essere perfetto, ne rappresenta una delle migliori incarnazioni.

In un'intervista che rilasciò nel 1995 al Sole-24 Ore, alla domanda su quale fosse il messaggio più importante che oggi il pragmatismo può trasmettere per la vita di tutti, Rorty rispose: «È lo stesso messaggio dell'Illuminismo e dell'umanesimo secolarizzato, e cioè l'idea che non esiste niente al di fuori della comunità umana. In un mondo in cui ci siamo solo noi, in cui non ci sono più Dio, la legge morale, la natura della realtà, ci rimane soltanto la speranza in una società più libera».

Uno dei suoi critici più acuti, Hilary Putnam, ha cercato di mostrare che lo stesso pragmatismo, e il pensiero liberaldemocratico che ne consegue, ha in realtà un rapporto assai meno liquidatorio nei confronti della verità. Rorty non ne è mai stato convinto, ma la sua filosofia come «conversazione » non ha mai dimenticato «il senso critico» tra gli ingredienti fondamentali anche del cittadino postmoderno.

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