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L'economia della pigrizia. Inchiesta su un vizio italiano

di Stefano Natoli

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3 agosto 2007

La fotografia di un'Italia piatta, pigra e dallo sbadiglio facile, quella che resiste al nuovo, che è allergica alla scienza, che non investe, che si nasconde nelle corporazioni, che oppone una resistenza passiva, che non vuole crescere. È l'economia della pigrizia, così come viene tratteggiata nel volume edito da Laterza dal giornalista di Repubblica, Roberto Petrini. Un'inchiesta su un vizio italiano, come recita il sottotitolo, difficile da estirpare. Anche perché, come si legge fin dalle prime battute dell'introduzione, in giro per il nostro paese "si respira aria di cloroformio. E' come se la gente si alzasse tardi, crescesse di peso,indugiasse con il naso all'aria in vaghi pensieri. Molti cominciano a convincersi che sia inutile darsi da fare e guardare al futuro, molto meglio rimanere immobili e conservare il passato". Che cos'è che non funziona? Quale malattia ha colpito i nostri connazionali? Perchè le riforme trovano una sempre maggior schiera di accaniti oppositori? Perché – sostiene Petrini - in Italia si è via via andato annidando il ‘virus di Oblomov', il protagonista del celebre romanzo ottocentesco di Goncarov, che trascorreva le sue giornate sdraiato sul divano. Nel Belpaese, insomma, si sarebbe messo in moto "un meccanismo che può andare tranquillamente sotto il nome di ‘economia della pigrizia'".

I sette aspetti che denunciano il "virus di Oblomov"
Secondo l'autore, che ha già all'attivo altri libri-denuncia sulla crisi del paese, "almeno sette aspetti della nostra società" denunciano la presenza del virus di Oblomov: la pigrizia difensiva – "la forma di resistenza al nuovo che investe soprattutto la generazione dei baby boomers e le classi culturalmente meno forti" – la pigrizia intellettuale – "quella dei fondamentalismi ideologici, ambientalisti o religiosi che ostacolano la ricerca" – la pigrizia di fronte al rischio – quella che "coglie le imprese" che non investono e che "preferiscono restare al riparo dei monopoli" – la pigrizia della rendita – ovvero quella delle corporazioni: dai tassisti ai benzinai, dai notai agli avvocati – la pigrizia del lavoro – che colpisce buona parte degli impiegati statali – la pigrizia del posto fisso – che riguarda tutti da vicino, "anche perché chi ha un posto fisso e lo perde, in Italia, trova di fronte a se il baratro" – e, infine, la pigrizia dei giovani – "che lasciano la casa di famiglia in media 9 anni più tardi dei loro coetanei stranieri". Dai punti messi bene a fuoco dall'autore derivano tutte le contraddizioni che frenano lo sviluppo del paese. Per uscire da questa situazione di stallo, suggerisce Petrini, bisogna "ripristinare il rispetto delle regole e la fiducia nel prossimo". Un compito, questo, che spetta alla classe dirigente. Politica e imprenditoriale. Ad esse, ma non solo, l'autore chiede "uno scatto in avanti", la capacità di "rompere le regole e i vecchi paradigmi per ritrovare un nuovo e più avanzato equilibrio". Ad esse, ma non solo, l'autore chiede "entusiasmo, valori e prospettive" per evitare il rischio "che un fenomeno con valenza sostanzialmente positiva come la globalizzazione si saldi, in un mix perverso, con irrazionalità e conformismo".
Un libro agile - appena un centinaio di pagine, suddivise in otto capitoletti - scorrevole e ricco di spunti. Che non esita a puntare l'indice sul mondo delle imprese – vedi ‘Imprenditori alla sbarra' – sugli impiegati statali o sugli enti inutili della ‘premiata ditta Sprechi Spa". Da leggere e conservare.

(Roberto Petrini, L'economia della pigrizia, Laterza, pagg 134 – euro 14,00)

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