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A Venezia gli Spaghetti Western, serviti da Quentin Tarantino

di Boris Sollazzo

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24 agosto 2007

"Il western all'italiana è un genere fra i più grandi nella storia del cinema mondiale. Molti registi di questi film non hanno mai avuto il giusto riconoscimento. In Italia, a settembre, a Venezia, finalmente lo otterranno.

Vi aspetto lì....". Promessa o minaccia, questo è uno stralcio del videomessaggio di Tarantino alla presentazione della retrospettiva sui Western all'italiana della Mostra internazionale dell'arte cinematografica di Venezia.

Con la direzione di Mueller si è compiuta la riscoperta di quel cinema erroneamente considerato di serie B, la "Storia segreta del cinema italiano", ora al suo quarto capitolo, ha saputo raccontare gli anni ruggenti e ruspanti del cinema italiano senza fanatismi né (auto)esaltazioni.

E il 2007 vede una grande monografia tutta da gustare: il genere più rivoluzionario e dirompente (anche più del successivo horror- splatter) che l'Italia abbia mai prodotto, gli Spaghetti Western, piomba al Lido.

Quelli del passato, ma non solo: Alex Cox con Searchers 2.0 e Takeshi Miike con Sukiyaki Western Django (con lo stesso Tarantino attore!) sono due insospettabili western "all'italiana" nuovi di zecca in altre due sezioni del festival. Un'influenza continua e prolifica: Tarantino, Rodriguez, Johnnie To, John Woo, l'Eastwood regista, persino Martin Scorsese (con il suo Far West metropolitano) e tutto il western statunitense della distruzione del mito americano, Peckinpah in testa, sono debitori di Leone, delle sue panoramiche, i suoi totali, il modo epico, "duro", rivoluzionario di girare.

"Certi film li potevamo vedere solo su cassettacce registrate da tv private- ci racconta il direttore Mueller- Rivolevamo l'impatto su grande schermo, una monografia che rintracciasse mappe e percorsi di un gruppo di registi accompagnati da produttori scaltri, lungimiranti o semplicemente con la ricetta per fare soldi in fretta, che seppero riprendere codici e convenzioni del cinema americano per riuscire a raccontare altre storie, come mai era successo prima in Italia". E come mai più, forse, è successo: gli spari non erano più solo nel duello finale ma tempestavano l'intera pellicola, gli eroi erano problematici, con un passato oscuro, con gli "occhi di ghiaccio" e mai sentimentali. Spesso ironici, anche involontariamente, molto politici.

Nessuna traccia del superomismo e dei miti violenti della conquista e del pionierismo, qui John Wayne aveva la faccia di Tomas Milian (e tanti altri, leggendari). "Giulio Questi – prosegue- ha raccontato a Pannone (in un'intervista documentario inedita da non perdere, che vedremo al Lido, Una Questione poco privata) che nei suoi western ci ha buttato una rivisitazione della storia recente italiana. Non è un caso che il declino del genere sia coinciso con l'assotigliamento del coinvolgimento nella politica della società. Era il cinema popolare che sapeva dialogare con tutti i gruppi di spettatori, in Italia e nel mondo".

Tra gli anni '60 e '70 esplode questo cinema di genere, partito con l'incredibile Per un pugno di dollari, primo capitolo della trilogia del dollaro di Sergio Leone, successo planetario. Farà proseliti (Sauerkraut Western in Germania, Camembert Western in Francia e variazioni culinario- geografiche simili in tutti i paesi latinos), sarà amato dal pubblico e snobbato e ridicolizzato dai critici. Il suffisso spaghetti nasce da questo disprezzo, che poi diventerà ammirazione, anche grazie ai ragazzi del '60 e i videotecari dell'80 (Tarantino, appunto) che ne faranno oggetto di venerazione ed emulazione.

"Era un'idea di cinema artistico- commerciale- conclude Mueller- che rimanendo in bilico tra popolare e cinema in prima persona diceva molto di più, anche politicamente. Un cinema inventivo, sovversivo, più libero". E politicamente scorretto. La puzza sotto il naso che infieriva sulla commedia all'italiana non risparmiò neanche Leone e compagni, per l'incapacità miope di comprendere che erano questi mattoni commerciali e di genere a rendere solida e unica la casa del grande cinema italiano.

Leone era sempre sottovalutato, gli altri considerati suoi pedissequi imitatori. I vari Petroni (Tepepa), Corbucci (Vamos a matar companeros e Django sono dei capolavori), Sollima (La resa dei conti), Santi (Il grande duello), Questi (speciale l'allucinato fin dal titolo Se sei vivo spara), Lucio Fulci (I quattro dell'apocalisse), Duccio Tessari (padre del mitico Ringo) erano registi di razza. Questi sette samurai sono stati ispiratori e padri putativi dell'esplosione di eroi indimenticabili: Sartana, Django, Ringo e Gringo, fino all'esilarante Trinità.

A raccoglierli, in una sofferta selezione di 32 titoli (tra cui tutti quelli citati), Marco Giusti, raffinato cultore del nazional popolare e il sodale Manlio Gomarasca, di concerto con autori e attori di quel movimento, quasi tutti presenti a Venezia con i testimonial Bud Spencer e Giuliano Gemma e il "padrino" Quentin Tarantino, sempre pieno di citazioni nei suoi film (Kill Bill in testa) riguardanti quasi tutti i titoli della rassegna. La sua sentenza è inappellabile. "Se non ci fosse stato Sergio Leone e lo Spaghetti Western il cinema moderno, compreso quello americano, oggi non sarebbe lo stesso. Non ci sarebbero i vari Franco Nero e Giuliano Gemma, ma neanche i Clint Eastwood, i Sam Peckinpah, i Lee Van Cleef e i Walter Hill; per non parlare di Ennio Morricone".

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