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Novembre 1951: quei tre giorni di collera del Po

di Marco Innocenti

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9 novembre 2007

Marco Innocenti, inviato del «Sole 24 Ore» e autore di numerosi libri sugli eventi mondiali sul costume del nostro Paese, racconta i grandi fatti del passato e come l'Italia li visse


Anni Cinquanta. L'Italia dalle mille vite ha cancellato le ferite della sconfitta e si è lanciata nella ricostruzione. È la stagione della speranza: il dopoguerra laborioso della gente qualunque ma anche quello ingrato di chi lotta per sopravvivere.

La collera del Po
A tradimento, il Po dichiara guerra alla sua gente. Il cielo rovescia le sue nuvole, il fiume in piena rompe gli argini e il Polesine va sott'acqua in tre giorni, dal 14 al 17 novembre 1951. Il grande fiume porta rovina, angoscia, miseria, lutto, terrore. Il Po va dove vuole, travolgendo uomini, animali e case. Terre allagate, colture invase, fattorie sommerse, bestiame perduto. Frantumato l'argine maestro nella zona di Ferrara, si scatena un mare grigio e schiumoso che trasporta tronchi divelti, detriti, macerie, carogne di animali e precipita con onde tumultuose verso la bassa pianura vanificando la fuga disperata di chi cerca salvezza.

La battaglia della sopravvivenza

L'atmosfera è da cataclisma e la paura corre sull'acqua. Rovigo è minacciata, i soccorsi sono travolti, non esiste alcun piano di difesa, lo sfascio è generale e i profughi, disperati, si stringono l'uno all'altro. Nel paesaggio spettrale emergono dalle acque i campanili delle chiese, i tetti delle case, le cime degli alberi. Sulle onde sporche navigano le barche a remi cariche di masserizie, passano gonfi i cadaveri di uomini e le carogne di animali e poi tronchi d'albero, mobili sfasciati, povere cose che scivolano via, portando con sé i ricordi del passato e il pane del domani.


Duecento morti

La pianura diventa mare, le acque coprono la terra come ai tempi di Noè. Sulle bocche degli italiani girano i nomi di Adria, Cavarzere, Grignano, Borea, Pontecchio, Contarina, Donada, i paesi della tragedia. La gente li recita come i nomi dei santi nelle veglie. I morti sono 200, i danni 250 miliardi di lire, i profughi 160mila. È un disastro gigantesco, una nuova Caporetto, un mondo di vinti con la dignità nel dolore davanti alla disgrazia, alla morte fredda e bagnata. La gente sugli argini, i fuochi dei bivacchi, le cime dei campanili che sembrano oscillare, una specie di muffa nell'aria e acqua a perdita d'occhio che segue il gioco dei venti: sembra un paesaggio da fine del mondo. I rotocalchi dedicano ampi servizi alla «tragedia del secolo». I flash impietosi frugano tra la gente. E per una striscia d'Italia già povera e affamata da secoli si preparano anni di miseria: quella miseria che sul grande fiume, come dicono i personaggi di Bacchelli, viene in barca. Da sempre.

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