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Giorgio Albertazzi nel "Moby Dick" di Antonio Latella

di Giuseppe Distefano

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3 DICEMBRE 2007
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Sulle note musicali dello "Stabat Mater" e del canto "Abbi pietà di me, non mi lasciare morire", l'anziano e stanco capitano Achab, accompagnato dal giovane marinaio Ismaele, il sopravvissuto, scende gli scalini con i bastoni che lo sorreggono. Giunto zoppicante sul proscenio, butta le grucce e si accovaccia. Ormai alla fine, dopo aver consumato la sua vita alla caccia ossessiva della balena bianca Moby Dick, Giorgio Albertazzi da Capitan Achab si trasforma in Amleto. Dopo aver proferito "Il resto è silenzio", a constatare l'inadeguatezza e la disfatta della parola, pronuncia quel "Essere o non essere" che è la domanda rimasta ancora irrisolta, che è terrore dell'inesplorato paese della morte. E dietro a lui, nel silenzio, il suo equipaggio ingaggia una sorta di danza coi movimenti del linguaggio dei segni dei sordomuti per dare voce ai versi danteschi "Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza". Da quel momento in poi si dipana un'indimenticabile pagina scenica che si inscrive nel corpo e nella voce di uno dei ultimi grandi mattatori del nostro teatro. L'Achab di Albertazzi cammina a fatica, e muove soprattutto il pensiero. Perché la sua caccia è una ricerca delle ragioni ultime dell'essere e del mondo a prezzo degli affetti, della patria, e della stessa vita. Lo accompagna, con ammirazione e soggezione, Ismaele, sostegno estremo del suo ammainare la vita, interlocutore privilegiato al quale l'anziano marinaio sembra consegnare la sua anima più profonda per un bisogno ultimo di vita. "Fammi guardare in un occhio umano", gli dice fissandolo e poi ordinandogli di sopravvivere per poter raccontare la storia a tutti nota. Quella di un baleniere che per vendicarsi del bianco cetaceo che gli aveva maciullato una gamba, e nel quale vede il simbolo del male e delle cieche e brutali forze della natura, ritorna in mare con la sua nave Pequod e un equipaggio di ufficiali, marinai e ramponieri, e, trovato il "mostro", ingaggia una lotta impari che lo vedrà morire con tutti i suoi uomini. Tranne uno, Ismaele. Questi, infine, accovacciatosi anch'egli, da dietro gli prende le braccia e teneramente le muove accarezzandole il suo stesso viso. In questa sequenza finale il duetto tra Albertazzi e il giovane, bravissimo, Marco Foschi è indimenticabile: un dialogo tra due generazioni a confronto che sembra anche un passaggio di testimone tra il maestro e l'allievo, indicato come suo epigono. Tutto questo, e molto altro ancora, è opera di Antonio Latella, regista tra i più talentuosi, intelligenti e creativi della scena teatrale degli ultimi anni. Il "Moby Dick" di Latella è un viaggio metaforico verso l'implacabile sete di conoscenza dove, al titanismo delle audaci imprese narrate nel romanzo, subentrano riflessioni più intime sul senso dell'esistenza. Riflessioni che lascia trapelare già ad avvio di spettacolo l'Ismaele trepidante del già citato Foschi, che arriva a inumidire i suoi occhi mentre in proscenio, solitario, inizia e s'addentra nel grande racconto.


MOBY DICK dal romanzo di Melville, diretto da Antonio Latella. Produzione Teatro Stabile dell'Umbria e Teatro di Roma. Al Teatro Argentina di Roma fino al 16 dicembre.

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