Nel bel film di Fred Zinnemann Cinque giorni un'estate il protagonista Sean Connery, un maturo medico inglese che si eclissa in Engadina con la giovane nipote, scorge dal rifugio una superba vetta scintillante di ghiaccio ed esclama: «Ecco la montagna per cui sono venuto qui». Il film non lo svela, ma quell'apparizione è il Disgrazia, conquistato da una comitiva di sudditi della regina Vittoria nel 1862. I resoconti delle maggiori vie tracciate da inglesi sul robusto massiccio delle Alpi Centrali sono ora raccolti da Giovanni Rossi nel volumetto Il picco glorioso. Ascensioni al Monte Disgrazia di membri dell'Alpine Club (Tararà, pagg. 122, À 14,00). Si celebra proprio in questi giorni a Londra il 150ڠanniversario del club che fu capostipite di tutte le associazioni di alpinisti. Anche Quintino Sella ne prese esempio per fondare, nel 1863 a Torino, il nostro Club Alpino. Uno dei primi salitori del Disgrazia, il coltissimo e spiritoso Leslie Stephen, padre di Virginia Woolf, sosteneva che l'alpinismo è uno sport come il cricket o il tennis, ma oggi fior di storici non la fanno così semplice. Alessandro Pastore, Marco Cuaz, Michel Mestre, Michel Tailland e numerosi colleghi, studiando le idee che hanno acceso e divulgato la passione per le vette, hanno ricostruito molti perché di questo sport atipico, «proiezione di modelli culturali e sociali borghesi tra Otto e Novecento». Così recita il sottotitolo della densa raccolta dei loro saggi Alla conquistadell'immaginario curata da Michael Wedekind e Claudio Ambrosi (Antilia, pagg. 360, À 30,00). Ovvio che di tutto ciò abbia risentito anche la narrativa. Le più belle pagine ispirate dall'esperienza delle "terre alte" e delle cime agli scrittori sono state raccolte da Davide Longo in un "supercorallo" Einaudi di piacevole lettura che ospita parecchi nomi illustri. A parte il frammento di Kafka, poche righe appunto kafkiane, e la trovata di infilarci una manciata di fotografie di Vittorio Sella come se fossero una storia, questi Racconti di montagna (pagg. XV-318, À 18,50) realizzano un'idea che sembra l'uovo di Colombo, mentre si rivela per nulla scontata, avendo escluso di peso i "récit d'ascension" di Bonatti, Messner e innumerevoli soci. L'antologia, eterogenea e allettante, schiera racconti di Hemigway, Crichton, Nabokov, Maupassant, Buzzati, Parise, Calvino, Primo Levi, e altri meno noti, incluso il più gustoso capitolo di "Alpinisti ciabattoni" dello scapigliato Cagna precursore di Gadda e la famosa Lettera del Ventoso di Francesco Petrarca. Tra gli ultimi titoli dei "licheni" Cda&Vivalda, la maggiore collana del settore, quello che suggerisco a chiunque è In vetta a occhi chiusi. Autobiografia di un alpinista cieco di Erik Weihenmayer (pagg. 460, À 22,00). L'autore, un giovane americano che ha perso del tutto la vista da ragazzo, ha scalato l'Everest, il Mc Kinley, l'Aconcagua e le altre massime vette di ogni continente ma anche l'immensa lavagna del Capitan, non certo per compiere stupidi exploits da Guiness ma per ribellarsi all'avversità e mantenere la voglia di vivere. Sulle strenne svetta l'imponente volume che corona la mirabile opera dei coniugi milanesi Giorgio e Laura Aliprandi, Le grandi Alpi nella cartografia 1482-1885 (Priuli & Verlucca, pagg. 384, À 95,00). Questo secondo tomo illustra le carte riferite ai passi Piccolo e Gran San Bernardo e ai maggiori massicci delle Alpi Occidentali: Monviso, Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa, Gran Paradiso. Lo stesso editore ha appena pubblicato una splendida enciclopedia in dodici volumi sulle Alpi che certo merita qualche parola in più.