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Frate Piombo, ma vale oro

di Marco Carminati

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9 febbraio 2008

Sapeva cantare, suonare il liuto ed era piacevole nel conversare. Come tutti gli adolescenti era incerto su cosa fare della propria vita. Ma a un certo punto decise: sarebbe diventato pittore. A Venezia, la città natale, fece in tempo a frequentare il vecchio Giovanni Bellini imitandone lo stile. Poi, capì che il futuro stava da un'altra parte, nei «modi della maniera moderna» espressi da Giorgio da Castelfranco. «Così, si partì da Giovanni e si acconciò con Giorgione... e fece ritratti in Vinegia e tavole con figure che tengono tanto della maniera di Giorgione ch'elle sono state alcuna volta tenute per mano di esso». Un viaggiatore illustre si accorge di lui, è il potente banchiere senese Agostino Chigi: «Il ricchissimo mercante, il quale aveva in Vinegia molti negotj, cercò di condurlo a Roma, piacendogli, oltre la pittura, che sapessi così ben sonare il liuto... E Bastiano vi andò più che volentieri».
Il ritratto di Sebastiano Luciani «viniziano», detto il «Frate del Piombo», che Giorgio Vasari traccia nel quinto libro delle sue Vite, è uno dei brani più brillanti e piacevoli della letteratura cinquecentesca. Tutte le imprese, i meriti e anche i difetti di questo grande protagonista del Rinascimento italiano vi sono tratteggiati con una tale guizzante vivacità che nessun saggio di catalogo, nessun comunicato stampa e, ahimè, nessun buon articolo di giornale sarebbero in grado di eguagliarlo.
Stupisce davvero che a una figura così rilevante nel panorama artistico italiano non sia mai stata dedicata una mostra monografica: la strepitosa rassegna aperta venerdì a Palazzo Venezia a cura di Claudio Strinati è infatti la prima in assoluto dedicata a quello che, in termini sportivi, potrebbe essere definito il «terzo classificato» del «campionato artistico romano»: primo Michelangelo, secondo Raffaello, terzo Sebastiano del Piombo.
La mostra è davvero un'occasione da non perdere. Quaranta dipinti e una ventina di disegni di Sebastiano (più una serie di opere del Manierismo romano e spagnolo per documentare la fortuna postuma del pittore) rappresentano gli appetitosi ingredienti della rassegna. Che, diciamo subito, non si presenta come la solita deprimente infilata di quadri appesi uno accanto all'altro sui soliti tristissimi tramezzi. La mostra di Sebastiano del Piombo è emozionante e spettacolare a cominciare dall'allestimento, firmato da Luca Ronconi e Margherita Palli, pensato per valorizzare al massimo dipinti e disegni e attutire un poco la lugubre vastità degli appartamenti nobili di Palazzo Venezia. I muri perimetrali sono stati rivestiti da pareti di velluto verde dall'andamento morbido e sinuoso. Su queste pareti di aprono profonde finestre dentro le quali, appese a una seconda parete di velluto verde più scuro, si trovano le opere, illuminate da una luce fredda. Le sale, parzialmente oscurate, sono caratterizzate da emozionanti giochi di luci: flebili fasci di diverso colore partono dal basso verso l'alto e si stagliano sulle pareti come colonne luminose, sovrapposte alle colonne in trompe-l'oeil che già scandiscono i vastissimi muri. I differenti colori delle luci (verde, rosso, blu) sono ispirati ai colori dominanti nei cassettoni dei soffitti. Credo che questa messa in scena serva non solo a stupire ma anche a capire l'essenza dell'arte di Sebastiano: il gusto del «colorire vago, morbido, vezzoso» che segnò la sua formazione veneziana e fece colpo al suo arrivo a Roma.
La mostra racconta la vicenda del pittore con grande linearità. La prima sala è dedicata alla produzione veneziana nel primo decennio del Cinquecento, con Sacre Conversazioni nello stile di Bellini accanto a ritratti alla maniera di Giorgione, come la Vergine Saggia (ma molto sexy) della National Gallery di Washington. Qui, si trovano anche le prime importanti commissioni pubbliche per le chiese veneziane, la pala di San Crisostomo e le ante d'organo per San Bartolomeo di Rialto. Ma il dipinto più emozionante della sezione è il Giudizio di Salomone, un telero di dimensioni inusitate proveniente da un'isolata collezione inglese a Kingston Lacy, il quale, visto il soggetto, era probabilmente destinato a decorare un edificio pubblico nel quale si amministrava la giustizia. L'aspetto sorprendente del quadro è che il soggetto del Giudizio, ovvero il bambino conteso tra le due donne, manca all'appello. Sebastiano non finì il dipinto. Per quale motivo? Perché dipingere gli costava immensa fatica. Vasari spiega: «Quest'uomo durava grandissima fatica in tutte le cose che operava ed elle non venivano fatte con quella facilità che suole talvolta dare la natura».
Nel 1511, Agostino Chigi porta Sebastiano a Roma e lo mette a lavorare alla decorazione della sua villa lungo il Tevere, che poi prenderà il nome di Farnesina. Sebastiano del Piombo non poteva capitare a Roma in un momento peggiore. La piazza artistica romana è quasi del tutto saturata da due giganti: Michelangelo ha appena finito la Volta Sistina, Raffaello lavora alle Stanze di Giulio II. Protetto dal Chigi (banchiere del Papa), Sebastiano si insinua a fatica tra i due giganti, soprattutto in virtù della sua straordinaria abilità di ritrattista. La seconda sala della mostra ce ne dà una prova lampante: il Ritratto del cardinale Ferry Carondelet (Madrid, Thyssen), la Dorotea di Berlino, l'Uomo d'armi di Hartford e il Ritratto di Anton Francesco degli Albizzi prestato da Huston (al quale Vasari riserva lodi sperticate), testimoniano che Sebastiano era in grado di tener testa alla grande alla ritrattistica di Raffaello.
In quegli anni a Roma era in atto una sorta di guerra fredda tra Michelangelo e Raffaello. Sebastiano entra nel partito di Michelangelo. Il Buonarroti lo prende sotto la sua protezione, gli scrive da Firenze dove è tornato dopo avere concluso la Volta Sistina, lo raccomanda al Papa, gli invia dei disegni per aiutarlo nel suo lato più lacunoso: l'esercizio della grafica. Sebastiano impara la lezione, pur nell'incertezza titubante del suo procedere. La terza sala, dedicata ai dipinti a soggetto religioso, riunisce l'impressionante sequenza della Pietà di Viterbo, del Cristo al Limbo del Prado, della Flagellazione di Viterbo e di varie versioni del dolentissimo Cristo portacroce, tutti quadri fondamentali per la nascita del Manierismo italiano ed europeo.
La lontananza di Michelangelo da Roma e la morte improvvisa (e sospetta) di Raffaello nel 1520 offrono a Sebastiano l'occasione di diventare il primo pittore di Roma, ma gli eventi precipitano. L'avvento al soglio pontificio di Adriano VI che odia e deprime le belle arti, e il trauma del Sacco di Roma nel 1527, infliggono un duro colpo alla vita degli artisti. Sebastiano riesce a ottenere "un posto fisso" in Vaticano come custode del piombo (da qui il suo curioso soprannome), ovvero una redditizia sinecura curiale con un piccolo effetto collaterale: per ottenerla bisogna farsi frate. Il pittore, obtorto collo, accetta. Intanto, impigrito dagli agi dello stipendio fisso (così almeno insinua Vasari), più che lavorare Sebastiano sperimenta. Si mette in testa di creare la «pittura eterna» dipingendo a olio su muro, su marmo e su lavagna: i suoi esperimenti si possono ancora ammirare nelle chiese di Roma, in San Pietro in Montorio e in Santa Maria del Popolo. Sebastiano non è un pittore adatto al buon fresco, è troppo incerto e titubante per procedere con prestezza. Ed è proprio su questo aspetto tecnico che si ruppe l'amicizia con Michelangelo. Nel 1534 il Buonarroti torna a Roma per affrescare il Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Sebastiano del Piombo, che fino ad allora aveva ricevuto consigli e indicazioni da Michelangelo, stavolta osa dargliene uno: perché non dipingere il Giudizio a olio su un muro adeguatamente preparato? Michelangelo reagisce malissimo. Ma come si permette Sebastiano! E per insultarlo usa un curioso argomento: dipingere a olio è un mestiere da donnicciole! La pittura a fresco presuppone virilità (ovvero immediata capacità di azione), non ammette lentezze, incertezze e ripensamenti. Michelangelo cancella il nome dell'irresoluto Sebastiano dall'agenda degli amici e non gli rivolgerà mai più la parola. Nonostante il pittore veneziano possa vantare ammiratore e seguaci tra i pittore del Manierismo romano e spagnolo (vedi le ultime due sale della mostra) quella rottura gli è stata davvero fatale.

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