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Ricordare, ma al futuro

di Giovanni Jervis

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19 aprile 2008

I nostri rapporti col passato sono meno semplici di quanto predichino le idee ricevute. I neurobiologi ci insegnano che il dimenticare non è affatto un automatico erodersi nel tempo delle tracce degli eventi ma un processo attivo, precisando anzi che la cancellazione dei ricordi è operazione necessaria per fare posto a nuovi apprendimenti; dal canto loro, i clinici che si occupano delle sindromi post-traumatiche aggiungono che l'effetto patologico più tipico dei gravi traumi non consiste affatto nel rimuoverli dalla coscienza bensì nel fatto che non si riesce a dimenticarli, al punto che la loro memoria si ripresenta immutata anche a distanza di tempo, in vivissime e disturbanti riattivazioni di immagini che sconvolgono il sonno e interferiscono con la vita quotidiana.

Gli psicoanalisti di oggi sono più consapevoli di un fatto, che fu sottovalutato da Freud: per la salute della nostra mente il saper dimenticare è altrettanto e forse perfino più importante che il saper ricordare. Ma la cosa più importante è ancora un'altra: saper rielaborare. Anzi, il ripresentarsi dolorosissimo dei ricordi traumatici è proprio legato alla loro impossibile elaborazione: sono ricordi indigeriti che persistono come corpi estranei nella nostra mente. Possiamo trarne qualche considerazione per i ricordi sociali? Nessun dubbio, anzitutto: la presenza del passato ci dona qualcosa di cui abbiamo bisogno. Per esempio, il sentimento dell'identità nazionale e la giusta fierezza per quest'identità – altra cosa dal nazionalismo – dipendono dal sentirsi coralmente partecipi di una storia, che è fatta di un tessuto fitto di ricordi accettati e vissuti senza alterigia ma anche senza vergogna, di ricordi dignitosi ereditati da tutti e rielaborati a ogni generazione. In questo campo si ha l'impressione che qualcosa manchi all'Italia: noi crediamo poco nella dignità e unità della nostra storia. È forse un problema di rimozione di eventi? Per esempio rimuoviamo la breccia di Porta Pia, o l'antifascismo, o il fervore della ricostruzione nel dopoguerra, o il coraggioso rifiuto di trattare con i brigatisti in occasione dell'affare Moro? È probabile di sì, ma non credo che sia una questione semplice: gli eventi importanti del nostro passato non sono soltanto qualcosa da tenere a mente, perché il tenere presente un'immagine, o una formula, può anche non insegnarci nulla. Se mancano rielaborazioni consapevoli non possiamo che vivere un dato ricordo, per esempio l'immagine di Aldo Moro cadavere nella Renault, come un'icona immobile, soltanto un po' malinconica e come tale, forse, anche un po' sterile.

Personalmente, non credo molto nelle giornate della memoria: il loro aspetto schematico, retorico e celebrativo è a volte discutibile. Esse sono un omaggio a chi ci ha preceduto e forse un rispettabile atto di devozione, ma vi è qualcosa di nostalgico e di un po' spento in un certo modo di rivolgersi al passato. È lecito, allora, riproporre un dubbio dissacrante: non è che in Italia si pensa troppo alle tradizioni del passato, e troppo poco alle sfide del futuro? Molti italiani sembrano restii ad accettare le sfide della modernità.

Non vorrei, insomma, che si ripetesse la situazione che venne stigmatizzata da una battuta di un viaggiatore inglese nell'Italia fine-Ottocento, il quale osservava che nel nostro Paese c'erano più monumenti che bagni pubblici. Oggi una cosa è certa: non abbiamo bisogno di un'aggiunta di monumenti. Certo, non bisogna rimuovere i ricordi sociali. Ma i ricordi non hanno bisogno di essere conservati come effigi o come lapidi, hanno invece bisogno di elaborazioni collettive, e anche di elaborazioni fiduciose e propositive. Altrimenti restano come ricordi morti – o come ricordi di morti – e a questo punto non possiamo dare intieramente torto a quei giovani, i quali ci dicono con aggressiva franchezza che quel tipo di ricordi non hanno alcun interesse. Hanno torto? Se rispondiamo loro che scelgono la rimozione, temo che siamo noi a non aver capito il problema.

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