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«Pennino d'oro» compie cento anni. Auguri Tullio Pinelli

di Damiano Laterza

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26 giugno 2008


"Luci del varietà". "Lo sceicco bianco". "I vitelloni". "La strada". "Le notti di Cabiria". "La dolce vita". "Otto e mezzo". "Giulietta degli spiriti". "Ginger e Fred". "La voce della luna". Sono film di Fellini. Affreschi epocali di tragi(comico) realismo e onirica magia. Sono (anche) film di Pinelli, il padre di tutti gli sceneggiatori. Tullio Pinelli - «Pennino d'oro», come lo chiamava Pietro Germi - compie cento anni. Una vita lunga e articolata. Come un copione cinematografico. La storia, la struttura, la credibilità della finzione. Ossessioni quotidiane degli scrittori di cinema. Narrare per immagini. Immaginare la narrazione. Pinelli. Cento anni straordinari, tra teatro, narrativa e cinema. Soprattutto, cinema. A partire da una laurea in Giurisprudenza e da una carriera ben avviata come civilista. Nella Torino degli anni trenta. Sua città natale. I primi esordi come drammaturgo. Poi, la guerra. La ricostruzione e un mondo in divenire che andava raccontato. A Cinecittà, in Roma. Dentro il neorealismo. Oltre il neorealismo. Un incontro casuale e memorabile. Quello con l'inquieta visionarietà di un giovane e talentuoso provinciale di nome Fellini. Un sodalizio che durerà diciotto anni. Fellini parlava, per ore. Pinelli batteva a macchina. Dava forma concreta a sogni e visioni. Coi piedi per terra. Poi c'era Flaiano. E il gusto per la boutade. Un trio irripetibile. La storia del nostro cinema. Come bohémienne inconsapevoli vivevano e osservavano. E raccontavano. Facendo nascere personaggi leggendari. Storie senza tempo. Sguardi agrodolci sul costume italico. Dal fascismo alla guerra, dal boom agli anni della volgarità televisiva. Quasi un secolo di storia. Un secolo di Pinelli. Al servizio, sempre, del racconto. Cronache scabrose, barocche, coraggiose. Frammenti di una società in evoluzione. Forzata. Che Pinelli delinea di piglio garbato e umorismo gentile. Uomo d'altri tempi. «Vecchio Conte», lo sfotteva il Maestro riminese. Che poi si arrabbiava se il nostro tornava all'antica passione: il teatro. A volte, il loro rapporto s'incrinava. «Fellini era un accentratore - ricorda Pinelli - ma era un genio. E io l'ho pensato sin dal primo momento». Per vent'anni smisero di lavorare assieme. Ma restarono, comunque, amici. Dal 1965 ("Giulietta degli spiriti") al 1986 ("Ginger e Fred") Fellini cercò altri autori. Pinelli produsse per altri registi. Tra le decine di opere scritte va ricordato, sicuramente, l'adattamento de "Il giardino dei Finzi-Contini" diretto da De Sica, che vinse l'Oscar nel 1970. O quello de "Il Marchese del Grillo" per Monicelli. Fino alla fortunata serie di "Amici miei". Riuscita incursione nella tradizione della commedia all'italiana. Qualche copione per la televisione, poi, ancora Fellini. Il Fellini stanco e lunatico del suo testamento incompreso. Una carriera, quella del regista più famoso del mondo, aperta e chiusa da Pinelli. Ironia della sorte. Come dire: l'immanente e il trascendente. Il Diavolo e l'Acqua Santa. Cioè, i caratteri del capolavoro. Con la scomparsa di Fellini, scompare, forse, anche il cinema italiano. Pinelli scrive – ancora oggi – quasi esclusivamente per la TV. Palesando, però, una certa, drammatica insofferenza: «Non so cosa resti del mio lavoro, tra tagli, ritagli, finali stravolti…». Comprensibile lamento di un autore infaticabile e dal talento purissimo. Una carriera coronata da numerosi riconoscimenti. Quattro candidature all'Oscar, un "David di Donatello", cinque "Nastri d'argento". La notorietà internazionale.
Auguri Pinelli.

26 giugno 2008
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