Paolo Giordano è del 1982. Dopo liceo e laurea, nonostante avesse opportunità all'estero, ha scelto una borsa di dottorato in fisica delle particelle all'Università di Torino, la sua città.
Venticinque anni e fisico sui generis, ha pubblicato un libro matematicamente sentimentale, emotivamente calcolato, tragicamente spiazzante, dove aritmetica e letteratura si mescolano nella narrazione dei due protagonisti: Alice e Mattia. Giovani adolescenti poi adulti, con esistenze segnate da una sofferenza rappresentata con scienza matematica. A questa stregua: «I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi – dice il capitolo 21 –. Se ne stanno al loro posto nell'infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravigliosi. Certe volte pensava che in quella sequenza ci fossero finiti per sbaglio, che vi fossero rimasti intrappolati come perline infilate in una collana. Altre volte, invece, sospettava che anche a loro sarebbe piaciuto essere come tutti, solo dei numeri qualunque, ma che per qualche motivo non ne fossero capaci».
Il titolo del romanzo è, appunto, «La solitudine dei numeri primi» (Mondadori Editore, 17,00 €). In vetta alle classifiche grazie a un poderoso passaparola di lettori straziati, commossi, distrutti dal millimetrico dettaglio della rappresentazione della difficoltà. E dalla geniale prosa di Giordano, che così ci spiega la sua passione, ora divenuta anche professione: «Ho suonato la chitarra per parecchi anni. Poi sono passato alla musica elettronica, fatta con il computer. Mi piaceva maneggiare l'audio dallo schermo di una macchina (con programmi tipo Garage Band, ndr), mi dava la sensazione di libertà estrema e al tempo stesso di gesto dissacrante: guardare il suono e maneggiarlo nell'ombra... Poi però ho capito che la mia cifra sarebbe stata la scrittura, perché per andare così a fondo nel racconto dei sentimenti, soltanto con la scrittura avrei potuto farlo».
Paolo Giordano vive da solo da 3 anni, nel quartiere di San Mauro. Suo padre è ginecologo. Sua madre è insegnante d'inglese. Di giorno Paolo persegue con metodica precisione numeri e cifre all'interno del laboratorio dell'Università. Di sera, con la stessa visione iper-razionale, scrive. «Quello del laboratorio è un lavoro speculativo – spiega –. Con la scrittura tendo a fare la stessa cosa. Isolare le parti attraverso un'inquadratura molto stretta, quasi a spremere la realtà. Ne ero consapevole quando lo facevo, l'ho anche ammesso nel libro: la violenza è nella precisione del dettaglio».
Per esempio, riportiamo dal romanzo: «Mattia lo faceva apposta a essere così silenzioso in ogni suo movimento. Sapeva che il disordine del mondo non può che aumentare, che il rumore di fondo crescerà fino a coprire ogni segnale coerente, ma era convinto che misurando attentamente ogni suo gesto avrebbe avuto meno colpa di questo lento disfacimento».
Sono parole scientificamente soppesate. Abbiamo chiesto a Giordano come mai: «Ho buoni riferimenti nella letteratura americana contemporanea. Mi sono formato con Micheal Cann, un maestro nel denudare situazione da qualsiasi orpello. Scrivere – riprende poi – mi aiuta a mettere in ordine le cose. Io sono un iper-razionale, e affronto tutto in modo analitico. Mi piace organizzarmi, mi piace pensare al libro la sera, prevedere uno sforzo di 20 cartelle ogni due settimane, mettermi al computer due o tre sere ogni sette... Di più non ci riesco, perché la letteratura è impegnativa...».
Particolare, forse unica come un numero primo, questa capacità di entrare nel profondo della sofferenza, di toccarne le viscere con distanza aritmetica, quasi a non farsi troppo male. «Sono un malinconico – ammette Giordano – ma non mi faccio male quanto i miei personaggi». Sacrosanto principio di Archimede. Questo fisico-scrittore, non sembra affatto, e solo, galleggiare...