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Speciale 65ª mostra internazionale d'arte cinematografica
 
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«Nessuna rivalità con Roma»

di Fernanda Roggero

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26 agosto 2008
Marco Müller (Ansa)

Incantatore, nomade, capace di sconfinare in diversi linguaggi espressivi e "mischiare le carte". È questo il cinema che porta a Venezia Marco Müller, 55 anni, direttore (rinnovato fino al 2012) della Mostra internazionale d'arte cinematografica che aprirà i battenti domani al Lido con l'atteso film dei fratelli Coen Burn after reading.

Qual è il criterio che guida la scelta dei film per Venezia? Come si riverbera nel cinema il nomadismo culturale del mondo globalizzato?
Non c'è la volontà di accorpare tematicamente i film, né quella di erigere steccati tra alto e basso, cultura e industria. Cerchiamo il cinema dove c'è, non solo nei vivai sorvegliati dell'arte cinematografica. Se l'anno scorso era emerso come tema la guerra, quest'anno, in maniera del tutto asistematica, abbiamo finito per preferire film dove un regista italiano gira in Amazonia, un cinese a Los Angeles, un hongonkese in Brasile... Non è nomadismo culturale, ma un segnale dell'estrema mobilità di questa idea di cinema.

Le tecnologie che affollano la nostra vita quotidiana hanno cambiato i linguaggi, il modo in cui fruiamo di informazioni e ci divertiamo. Siamo assordati dalle immagini, come si riflette questo sui film?
Al Lido da un lato mettiamo in discussione quel che ancora possiamo chiamare cinema, dall'altro privilegiamo opere che ci permettano di orientarci tra le immagini del presente. Tutti i direttori della Biennale cercano di lavorare in un gioco di riverberi che vanno dall'arte al mondo e ci ritornano.

Che tipo di ibridazioni cerca il cinema?
È importante che Venezia appartenga alla Biennale. Avviene una commistione continua dei diversi linguaggi espressivi. Prova ne sia il premio che la Mostra promuove con Gucci per segnalare esempi di questo sconfinamento sistematico.

Resisterà il grande schermo? Si vedono film al computer, sul telefonino...
Vorrei che Venezia permettesse di tornare al cinema come grande spettacolo di massa dagli effetti incantatori. Molti film di oggi stancano, lasciano il pubblico affamato di un immaginario al quale il cinema fino a ieri ha risposto. Ma il grande schermo non sempre è in pellicola, è anche in digitale, in 3D. Mentre effettuavo la selezione dei film americani indipendenti mi sono precipitato a vedere in sala 3D il remake de Il viaggio al centro della terra. Al di là degli effettacci tipici di questo mezzo, come il dinosauro che spalanca le mandibole e sembra inghiottirti, l'esperienza del film è fantastica per tattilità, profondità, fisicità.

L'anno scorso ci sono state critiche sulla scelta dei film italiani, quest'anno siete corsi ai ripari con nomi più "collaudati"?
La mostra deve necessariamente presentare una panoramica del cinema italiano, senza dimenticare i nuovi autori: abbiamo scelto registi che utilizzano opzioni stilistiche diversissime.

Mancano alcuni grossi film americani, solo colpa dei tempi di produzione o si fa sentire la concorrenza di Toronto?
In questo momento è Toronto che ha paura di Venezia! Non avranno grandi film delle major. Per noi purtroppo la scelta era molto limitata, la maggioranza delle pellicole che sulla carta sarebbero state giuste per Venezia usciranno a fine anno. Comunque abbiamo cinque americani in concorso, quattro con attori molto noti, la parte di glamour è garantita.

Domanda inevitabile sul festival di Roma...
Gian Luigi Rondi non è solo uno straordinario fabbricante di cinema, è un grande vecchio. Ha subito precisato il vero ruolo di Roma: essere un festival di prime internazionali e non di rimbalzi da Londra e Toronto. Sarà una manifestazione con caratteri forti, ma in nessun modo cercherà di disputare a Venezia la posizione riconosciuta, si tratta di ragionare sulle date. Per me comunque il secondo festival italiano più importante dopo Venezia è quello del cinema muto a Pordenone.

Lei in passato ha collaborato con Fabrica, che ruolo vede per i privati nel mondo del cinema?
Grazie alla nuova normativa si amplierà sempre di più il margine di manovra per i privati. Investitori, non solo mecenati. Per quanto riguarda l'esperienza di Benetton, se i ricavi degli undici film prodotti quando collaboravo con Fabrica – insistevamo sul cinema dell'Est e del Sud del mondo – sono stati piuttosto contenuti, il gruppo ha ricavato grande visibilità e prestigio culturale.

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