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Milton Glaser. Disegno, dunque sono

di Domenico Rosa

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22 novembre 2008
Dieci cose che ho imparato

"Il disegno è una forma di meditazione, ti costringe a fare attenzione, che è la ragione ultima del fare arte". Milton Glaser, ottanta anni a giugno, considerato il più grande graphic designer del secolo, ha una voce profonda, degna della sua statura fisica e professionale.

E' vestito di nero e si muove calmo tra le pareti arancioni del suo studio di Manhattan, accogliente come una casa. E' un uomo saggio e autorevole, sembra aver rarefatto bisogni, gesti, parole, votandosi spontaneamente ad una sobrietà non esibita. Fa pensare a Giorgio Morandi, di cui è stato allievo a Bologna agli inizi degli anni cinquanta:"Con lui ho imparato una cosa: quello che uno studente può apprendere non è tanto la tecnica, lo stile o un trucco, ma ciò che il maestro è". Non ha mai scambiato il design per l'arte, di mezzo c'è la committenza, la necessità del compromesso, ma anche la liberazione dall'egocentrismo e dallo stile.

Art is work è il titolo velatamente ironico di uno dei suoi libri, nei quali racconta la genesi dei suoi progetti, il rapporto con i committenti, i ripensamenti, i molti successi e le sconfitte. "E' fondamentale il brief del cliente, poi mi piace lavorare in fretta, spingo anche i miei studenti a farlo. Ma funziona solo se hai una miniera di informazioni, sensazioni ed esperienze da cui attingere". Ha fatto di un mestiere una filosofia concreta, concentrata nel decalogo. Glaser è rimasto un artigiano anche dopo la rivoluzione tecnologica:" Il computer è uno strumento pericoloso, non lo tocco mai, amplia la tua idea di forma, ma la può alterare se non è ben chiara nella tua mente prima di cominciare a usarlo. Non serve come strumento di pensiero, cristallizza un'idea troppo velocemente. Però senza di esso non avrei mai potuto fare questo", dice mostrando un manifesto con una miriade di piccole variazioni di colore.

Il suo modo di lavorare non prevede divisioni di ruolo tra grafica e illustrazione:"Mi sono sempre mosso tra questi due ruoli, perché da illustratore non controlli il tuo lavoro, fai qualcosa che spesso finisce in un contesto sbagliato, con scelte tipografiche che ne trasformano il significato". Negli ultimi anni il suo lavoro è diventato più chiaro, gli strumenti rigidi hanno lasciato spazio a materiali morbidi, ha sperimentato tecniche che prevedono il caso, l'imperfezione, come se avesse abdicato al controllo totale sulle immagini. Milton ha ballato per cinquanta anni sui confini tra le diverse arti visive disegnando poster per eventi culturali, marchi aziendali, copertine di libri e dischi, caratteri tipografici, quotidiani, arredi per ristoranti, oggetti per l'industria senza mai dare la sensazione di essere un infiltrato. Il suo eclettismo stilistico, che ha affascinato generazioni di graphic designer di tutto il mondo, è un muro invalicabile, impossibile provare a imitarlo su questa strada:"Per un disegnatore il suo prodotto è il suo stile, ma fatalmente passerà di moda. Se vuole continuare a lavorare deve decidere come rispondere allo zeitgeist, lo spirito del tempo.

C'è un saggio di Isiah Berlin, Il porcospino e la volpe, in cui si parla dei diversi modelli di creatività. Il porcospino ha un'unica grande idea in tutta la sua vita, la volpe ne ha tante, non altrettanto totalizzanti. Esistono differenti personalità. Per quanto mi riguarda, sono convinto che votarsi troppo a un unico stile è una perdita di tempo". Una sua splendida mostra, curata da Cristina Taverna e Andrea Rauch, è in corso al Chiostro di Voltorre, a Gavirate (Va), aperta fino al 18 gennaio 2009. Moltissimi gli originali, dai quali è possibile capire come colora, in che dimensione disegna, che carta usa. E' intitolata I love NY, dal logo, disegnato (gratis) nel 1977 e diventato famoso il tutto il mondo, che ha anticipato di decenni il linguaggio degli sms. E' stato appena pubblicato anche il suo ultimo libro, Drawing is thinking, edito in Italia da Nuages:"E' una melodia composta da immagini invece che da suoni. Ho messo insieme disegni fatti nell'arco di 40 anni, in una sequenza in cui ogni immagine anticipa quello che segue e la mette in relazione a ciò che la precede, come le note in una sinfonia. I disegni che ho scelto hanno delle affinità tra loro, ma non c'è storia, c'è astrazione".

Nell'intervista che introduce il volume, Glaser dice:" L'interesse che da molto tempo ho per l'ambiguità, deriva dal fatto che i nostri più profondi sentimenti sono raramente suscitati dalla coscienza. Sono affascinato dal fatto che gli attuali studi di neurobiologia suggeriscono che non può esistere alcuna realtà prima che il cervello la crei. Ciò che è più avvincente per me, circa l'atto del disegnare, è che diventi cosciente di quello che stai guardando solo attraverso il tentativo di disegnarlo". Cosa avrebbe fatto Milton senza il disegno?:
"Non ci ho mai pensato… il cuoco?".

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