Proprio mentre si trova di fronte alla nuova sfida alla sua esistenza posta dal procedere del programma nucleare militare iraniano, Israele è alle prese con una profonda crisi di leadership. Le elezioni politiche sono in calenda-rio per il 10 febbraio e all'orizzonte non si vede nessuna guida autorevole. Anzi, di fatto il panorama politico è proprio desolato. Ehud Olmert, che ricopre provvisoriamente la carica di primo ministro, sta per affrontare un processo per corruzione ma si rifiuta di lasciare il posto; Ehud Barak e Binyamin Netanyahu – i capi, rispettivamente, del Partito laburista e del Likud – sono due ex primi ministri ormai screditati; e Tzipi Livni, che guida il nuovo partito centrista Kadima, è tutto sommato una principiante senza reale esperienza nel campo cruciale della sicurezza, e manca di carisma.
Lo storico Partito laburista – che condusse il movimento sionista alla creazione dello Stato di Israele e ne guidò poi i governi fino al 1977 – è alle corde. Stando ai sondaggi, dovrebbe raccogliere solo il 5-7 per cento dei voti. Esso ha inoltre subito innumerevoli defezioni, tra cui quelle dell'attuale capo di Stato, l'ottantacinquenne Shimon Peres (che è passato al Kadima), dell'astuta colomba Yossi Beilin (che ha abbandonato del tutto la politica) e di Avraham Burg (ora diventato un uomo d'affari). Burg, che ha coltivato per tutta la vita l'ambizione di diventare primo ministro, dice di essersene andato per ragioni ideologiche, dopo essere rimasto disilluso dal sionismo; i suoi critici, però, sospettano che il suo abbandono abbia più a che fare con il mancato ottenimento di un posto nel governo (suo padre, Yosef Burg, con cui Avraham aveva un rapporto ambivalente, era stato un ambiguo ministro di centrodestra per trentacinque anni, tra il 1951 e il 1986).
Dal canto suo il Likud, successore del Movimento revisionista del perio-do pre-statale, ha perso i propri ormeggi ideologici e non crede più in un Grande Israele, sembrando invece pronto a cedere parte della Cisgiordania in cambio della pace.
Tutto ciò segna una profonda distanza dai primi cento anni del sionismo, quando al timone c'erano uomini determinati e votati alla causa. Durante la prima crisi in cui Israele vide in gioco la propria sopravvivenza, nel 1948, quando il nuovo Stato ebraico (che aveva 650.000 abitanti) venne attaccato dagli arabi, David Ben-Gurion lo guidò con mano sicura (provate a fare un confronto con l'ottusa ed esitante leadership di Olmert durante la Seconda guerra del Libano, nel 2006) e lo condusse con fermezza alla vittoria e al riconoscimento internazionale. Uomo ideologico ma al contempo anche pragmatico, Ben-Gurion, facendo mostra di scaltrezza e di una travolgente volontà di potenza, lavorava ventiquattr'ore su ventiquattro (i suoi figli non lo vedevano quasi mai) e non accumulò nessuna ricchezza personale (morì in una baracca nel kibbutz di Sdeh Boqer, nel deserto del Negev).
I suoi immediati successori, nonostante le loro manchevolezze, erano mossi come lui dall'ardore sionista e dalla ricerca del bene comune. Moshe Sharett (laburista), Levi Eshkol (laburista), Golda Meir (laburista) e Mena-chem Begin (del Likud) morirono tutti senza ricchezze e, in vari modi, schiacciati sotto il peso delle circostanze avverse e delle loro pesanti re-sponsabilità.
I politici di oggi sono tutta un'altra razza: Olmert, Netanyahu e Barak hanno trascorso anni interi ad ammassare ricchezze, sfruttando enormemen-te i contatti garantiti dai loro lunghi periodi in carica.
Avraham Burg è il miglior esempio della costante erosione dell'ethos sionista a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Con lui, però, tale ero-sione non si è limitata a percorrere il tragitto dalla ricerca del bene pubblico a quella dell'interesse privato, ma si è spinta oltre, fino a sfociare in una posizione apertamente antisionista.
In questo vi è un'ironia davvero sorprendente: come presidente dell'Agenzia ebraica e dell'Organizzazione sionista mondiale (1995-1999) e come portavoce del parlamento israeliano, la Knesset (1999-2003), Burg è stato per anni l'incarnazione e il simbolo stesso del sionismo.
Ma poi la disillusione ha avuto il sopravvento. In The Holocaust is Over, che racconta la sua evoluzione intellettuale, Burg cita le parole di sua madre: «Questo Paese [Israele, intorno al 2000] non è quello che abbiamo costruito. Nel 1948 avevamo fondato un Paese diverso, ma non so che fine abbia fatto» (p. 49).
E la madre di Burg aveva certamente ragione. L'Israele del 1948 era un Paese più egalitario, aveva una società ebraica (essenzialmente ashkenazita) più unitaria, più convinta del proprio destino e di come la propria causa fosse sostanzialmente vera e giusta. L'Israele di oggi è multiculturale, liberale e tollerante, più democratico e più prospero.
Ma Burg si scaglia sia contro l'Israele del 1948, sia contro quello (ebraico) di oggi. Il nocciolo del suo discorso è semplice. Hitler ha vinto (p. 6); Israele è una società malata, «un ghetto di bellicoso colonialismo» (p. 35), «paranoico» e «schizofrenico» in conseguenza dell'Olocausto (p. 23). Egli parla dell'«assoluto monopolio e il predominio della Shoah su ogni aspetto delle nostre vite» (p. 17), delle «relazioni tra ebrei e arabi, religiosi e laici, sefarditi e ashkenazidi» che sono tutte governate dalla Shoah (p. 23). Come Norman Finkelstein, anche Burg parla dell'«industria dell'Olocausto» (pp. 4-5) e, spingendosi un passo oltre, dell'«epidemia della Shoah».
CONTINUA ...»